Cinema

Arriva "Mein Fuhrer", film che ridicolizza Hitler

Arriva "Mein Fuhrer", film che ridicolizza Hitler

Mein Fuhrer è un film controverso per natura, fatto per essere amato oppure odiato. Destinato a sollevare polveroni, a provocare polemiche. E per capire il perché, basta guardare le sue credenziali: è diretto da un ebreo, il tedesco Dani Levy; ha come personaggio principale Adolf Hitler; non è un dramma ma una commedia (anche se amara e tragica), che guarda molto da vicino al lato umano, troppo umano del tiranno. Dunque un'operazione difficile da digerire. Che ha spaccato in due il pubblico e i critici tedeschi; e che non è piaciuta affatto, ai vertici della comunità ebraica. Come il regista, a Roma per presentare la pellicola (in uscita nelle nostre sale), racconta: "E' vero - ammette - a livello ufficiale, la comunità ha reagito negativamente, attraverso una nota scritta. Ma i miei familiari mi hanno appoggiato. E poi io in questi mesi ho viaggiato molto, presentando il film a comunità ebraiche di diversi paesi, e la gente lo ha amato. Certo, diversi intellettuali ebraici hanno scritto articoli contrari, già prima di averlo visto: giudicando solo dal punto di vista politico, non da quello artistico. E questo è molto pericoloso". Insomma, Levy - che nel suo precedente e fortunato Zucker ha preso in giro molti luoghi comuni ebraici, tra cui l'usare l'Olocausto come arma di ricatto morale - è ben consapevole del dibattito suscitato dalla sua creatura: "In Germania - dice - il film è uscito in gennaio, e per almeno quattro settimane tutti i giorni la stampa ne parlava". Segno di una ferita, quella del passato hitleriano, tutt'altro che rimarginata: "Ma solo se i tedeschi faranno pace col loro passato - avverte lui - saremo davvero sicuri che fenomeni del genere non si ripeteranno". Ma veniamo al film. Siamo a Berlino, a Natale del 1944: la guerra va malissimo, Hitler (Helge Schneider, comico e musicista tedesco) è chiuso nelle sue stanze, vittima della depressione. Allora Goebbels, potente ministro della Propaganda, ha un'idea: fargli pronunciare uno storico e battagliero discorso, il primo gennaio del '45, per risollevare gli animi del popolo. Ma l'unico uomo che può aiutarlo a risollevarsi è l'ebreo Adolf Grumbaum (Ulrich Muhe, lo straordinario interprete delle Vite degli altri, recentemente scomparso), suo ex professore di recitazione, chiuso in un campo di concentramento. I gerarchi nazisti lo prelevano dal lager, lo ripuliscono, accettano la sua richiesta di liberare anche moglie e figli, e lo portano al cospetto del Fuhrer. Un rapporto difficile, quello tra i due, in cui emergono tutti i tic e le frustrazioni del grande dittatore - visti con molto scarcasmo, così come quelle degli altri alti papaveri del regime. L'insegnante di recitazione quasi psicanalizza il tiranno, e porta alla luce il fatto che a traumatizzarlo, spingendolo a una rabbia e a una violenza estrema, è stata l'educazione durissima e disumana datagli dal padre. Ma intanto il primo gennaio è vicino, e Grumbaum è costretto a scegliere cosa fare: ucciderlo, assecondarlo, tentare di cambiare il corso della storia.... Questa la trama di un film che sulla carta (e anche nella campagna promozionale: basta pensare che il sottotitolo è La veramente vera verità su Adolf Hitler) è definibile come una commedia. Ma chi si aspetta una pellicola sempre e solo divertente, potrebbe restare deluso: il finale è tragico, molti momenti drammatici, e anche la risata viene fuori amara. Come Levy del resto ammette: "La maggior parte dei critici - spiega - si aspettava un prodotto che facesse scoppiare dal ridere: ma una commedia vera e propria, su questo argomento, non si poteva fare. Io definirei Mein Fuhrer una tragedia con elementi comici. Un film nato da un grido che sentivo dentro: il mio modo personale di 'vendicarmi' di Hitler". Uno stile, il suo, che si comprende meglio se pensiamo alle fonti di ispirazione di Levy. A cominciare dal Roberto Benigni, ringraziato esplicitamente nei titoli di coda: "Quando ho visto La vita è bella la prima volta - racconta il regista - mi ha scioccato e disgustato. Dopo qualche giorno, però, mi sono imposto di rivederlo: e l'ho trovato coraggioso, temerario, complesso". E poi c'è l'altro, inevitabile riferimento, Il grande dittatore di Charlie Chaplin: "Sapevo che avrebbero paragonato il mio e il suo film - prosegue Levy - del resto, parliamo di una pietra miliare del cinema. A me però, al contrario di Chaplin, non interessa il lato infantile di Hitler ma mostrarne la psicologia, le sue radici nella 'padagogia nera' dell'Ottocento, quel modo umiliante e violento di educare i figli che fu utilizzato anche da suo padre". Il tutto, con un intento dichiarato che comico non è per nulla, ma che anzi è serissimo: "Evitare di trasformare il nazismo in una cosa mostruosa, un orrore anonimo. Senza vedere l'intelligenza che c'era dietro". Le sue ragioni profonde, insomma. Nella speranza che tutto non accada di nuovo. Fonte: La Repubblica