Se mai si farà il ponte sullo stretto di Messina auguriamoci che non diventi una «calamita dei suicidi» come il Golden Gate Bridge sulla baia di San Francisco. Nei 70 anni trascorsi dall'inaugurazione (maggio, fra un mese la ricorrenza), la celebre passerella color arancione di quasi tre chilometri che unisce Fort Point e Lime ha attirato oltre 1500 volontari della morte. Su questo fenomeno Eric Steel ha messo in opera per un anno intero un documentario suggellato dall'agghiacciante elenco delle ventiquattro persone decedute nel corso del 2004.
Tutto comincia nella normalità di una delle tante giornate tiepide che invitano a respirare l'aria di mare sulla baia, gente che va gente che viene, quando all'improvviso un ometto di mezza età scavalca il parapetto e si butta. Lo vediamo sbalorditi proprio come lo sportivo di kiteboard che nel film racconta di aver tentato un'inutile operazione di recupero. The Bridge prosegue inanellando vari episodi analoghi, un paio dei quali a lieto fine grazie a suicidi sventati con la persuasione o la forza. Il tormentone è costituito da un giovanotto vestito di nero che vaga sulla pensilina, a tratti incerto sulla direzione da prendere, con soste contemplative appoggiato alla balaustra. Sempre più chiaramente si capisce come potrebbe degenerare la passeggiata: e infatti scatta il momento, in sottofinale, in cui il tipo sale sul parapetto e si lascia cadere all'indietro per il volo fatale. La situazione ha una pregnanza tanto forte da far sorgere il sospetto di una messinscena, magari usando una controfigura.
Ma pare, invece, che sia tutto vero. Il regista Steel aveva provveduto a piazzare in vari punti strategici delle telecamere che automaticamente registravano i passaggi. Perché allora non fermare in tempo lo sciagurato telefonando alla polizia? Perché fra i nove milioni di persone che transitano ogni anno sul ponte i comportamenti inquietanti sono abituali e finché il gesto fatale non è almeno abbozzato si rischierebbero troppi interventi a vuoto. Di questo personaggio, e di numerosi altri, apprendiamo i precedenti a pezzi e bocconi da congiunti e amici: tutte storie di ordinaria follia in cui affiorano ricoveri e incompatibilità con famiglia e ambiente in un quadro diagnostico di depressione, paranoia o schizofrenia. Ogni morte volontaria ha il suo mistero, si trascina dietro risentimenti («Perché si è comportato così? Perché mi ha fatto questo?») e rimorsi («Non abbiamo fatto quanto potevamo per fermarlo»). Nei più saggi subentra la rassegnazione: c'è chi conclude addirittura come Scarlett in Via col vento: «Domani è un altro giorno».
The Bridge è un film che suscita interesse, ma lascia inevase parecchie domande. Per saperne di più sulla «Porta d'oro», divenuta per alcuni la porta dell'inferno, siamo risaliti all'articolo di The New Yorker (ottobre 2003) da cui il regista ha preso lo spunto: «Jumpers» (saltatori) di Tad Friend, abituale redattore della rubrica «Letters from California». Spulciando fra le notizie apprendiamo che il 19 marzo 2003 si registrò anche un suicidio politico, quello di uno che protestava per la strage dei civili in Iraq. La percentuale media di «jumpers» è di uno ogni due settimane: videocamere, telefoni e pattugliamenti servono a qualcosa, ma non sempre. Servirebbe l'elevazione della barriera di cui si parla da cinquant'anni. Quelli contrari adducono motivi di estetica: perché rovinare uno storico manufatto come il ponte a causa di pochi dementi? Il reverendo Jim Jones promosse un rally a sostegno della barriera antisuicida, ma un anno e mezzo dopo guidò lui stesso un suicidio di massa in Guyana. Friend deplora che i media parlino dei «saltatori» solo se coinvolgono celebrità o fermano il traffico. Un agente che ha dissuaso più di 200 candidati al suicidio si confessa pessimista: sorrisi e buone parole a volte bastano, più spesso no.
Cinema