Cinema

Gran Torino

Gran Torino

Soldato in Corea, poi meccanico della Ford, padre, marito, infine vedovo e pensionato burbero. Walt Kowalski (Clint Eastwood) risponde alle cose che non gradisce –e sono parecchie – con un grugnito: grugnisce vedendo la nipotina che si presenta al funerale con l’ombelico scoperto, perché non sopporta il suo quartiere residenziale ormai colonizzato dagli Hmong, immigrati di origine asiatica, di fronte al telefono con numeri giganteschi regalatogli dalla nuora, contro i depliant illustrativi delle case di riposo. Insomma, è un uomo di poche parole e rumorosi silenzi. Intanto intono a lui il mondo è cambiato. Non è più il Midwest di una volta, non è più l’America di una volta: il figlio addirittura guida un’auto giapponese e neppure stare seduto in veranda a bere birra è un rituale rilassante. Il grugnito non basta a tenere lontani gli avvoltoi dalla sua Ford Gran Torino sport del 1972, che tiene custodita gelosamente in garage e sembra concupita da tutti. L’arrivo nella sua vita di Thao (Bee Vang) rivoluziona tutto, lasciandolo all’apparenza come prima. Un metro e novanta contro un metro e sessanta, uno guarda in alto, l’altro in basso. Il melting pot si completa con l’incrocio dei mondi diversi e Kowalski davanti allo specchio ammette: “Ho più cose in comune con questi musi gialli che con i miei familiari”. Gli asiatici dei quali Kowalski non ricorda i nomi (il più esilarante è quello della bella Youa, trasformata in “Gnam Gnam”) sono l’architrave di un equilibrio stabile, perché pronto a infrangersi. Se in “The million dollar baby” la morte era vista come una liberazione necessaria, nei western è un regolamento di conti, in questo caso è una serena accettazione della conclusione di una vita intensa. Il film fa scoprire gli Hmong, una tribù etnica di 18 clan sparpagliati tra le colline del Laos, del Vietnam, della Tailandia e di altre parti dell’Asia, che sono stati portati negli Stati Uniti a seguito del loro coinvolgimento nella guerra del Vietnam per salvarli da sicure ripercussioni dei regimi. Si ride e si piange, si riflette. E si sogna un poco. Obbligatorio restare in sala fino ai titoli di coda perché Clint ci regala una canzone con la sua voce rauca. I più leggeranno il film come la dimostrazione dell’integrazione e della convivenza pacifica tra razzismo e controrazzismo. Piace pensare che non sia così, che per una volta il messaggio non sia scontato.