Anche il secondo spettacolo goldoniano proposto dal Piccolo in quest’anno di celebrazioni è risultato squisitissimo ma freddino. Del Ventaglio di Luca Ronconi si è disse a suo tempo; qualcosa di non molto diverso torna ad accadere oggi col Campiello offerto nientemeno che dalla gloriosa Comédie Française e diretto da un devoto discepolo di Giorgio Strehler come Jacques Lassalle.
Niente da ridire sulla confezione, e nemmeno sulla preparazione di questo regista, ben consapevole di come ormai più di mezzo secolo fa prima Visconti e poi il fondatore del Piccolo (quindi, sulle loro orme, Squarzina, Castri, ecc. ecc.) rivalutarono l’autore della Locandiera col semplice espediente di prenderlo sul serio, ossia di trattarlo abolendo minuetti e leziosità settecentesche entrate nella tradizione per restituirgli una dignità di classico. Lassalle va inoltre sul sicuro quando sceglie Il Campiello, testo a lungo considerato minore ma poi recuperato incancellabilmente da Strehler con uno dei suoi allestimenti più ispirati. E’ vero che sulla carta poteva sembrare poco esportabile, sia per l’inesistenza della trama - solo piccole ripicche, rivalità, invidie tra popolani in uno spazio circoscritto, durante una fredda giornata d’inverno lontana dal Carnevale dei signori - sia per l’importanza qui dei vari registri linguistici, ché i plebei parlano in dialetto (reso metricamente, inoltre, in settenari e martelliani talvolta rimati), contrastando con l’idioma del testimone-visitatore-intruso napoletano, e anche della piccola snob Gasparina, socialmente meticcia e quindi non veramente accettata da nessuno.
Grazie alla traduzione di Ginette Herry e Valeria Tasca, Lassalle sormonta queste difficoltà, avvalendosi tra l’altro di una piacevole scenografia di Antonio Fiorentino, citazione di quella strehleriana ma con tinte scolorite, esauste, al posto di quel bianco e nero, nonché di curatissimi effetti (nevicata, rumori di vento, cani che abbaiano, ecc.). Lassalle sfoggia, anche, una compagnia di attori perfettamente all’altezza, a partire dal perplesso ma divertito Cavaliere di Denis Podalydès. Portando un tantino avanti il discorso sulla «serietà» di Goldoni, egli accentua alcuni tra gli aspetti meno cordiali della pièce, come la volgarità e la chiassosità dei popolani in genere; fa del geloso Anzoleto un violento e quasi un energumeno e di Lucieta una focosa zingara pressoché incontrollabile; dà al ballo un carattere un po’ sinistro, introducendo tre musicanti ciechi; e movimenta l’azione con qualche trovatina, nonché con molti corpo a corpo sul pavimento gelato, e persino con capriole di Lucieta.
Tutto ciò, seppure sfumato dalla inveterata passione di questo regista per luci crepuscolari che spesso rendono poco visibili le facce degli interpreti, è accettabile. Senonché i numerosi e bene amalgamati elementi positivi sono poi sabotati dalla lentezza imposta agli scambi. La ciàcola veneziana va a raffiche, questa è gente che parla tanto, e se dice qualche sciocchezza non importa, la sua foga fa passare ogni cosa. Invece i francesi della Comédie porgono ogni battuta come se contenesse una perla, con la conseguenza che ben presto questo Mozart registrato a 45 giri e suonato a 33 diventa quello che il vero Goldoni non è mai, ossia, ahimè, pesante. Al Giorgio Strehler, 160’, oggi ultima replica.
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