Prosa
GIORNI FELICI

Dentro il vulcano

Dentro il vulcano
Jesi, teatro Pergolesi, “Giorni felici” di Samuel Beckett DENTRO IL VULCANO Giorni felici è un testo emblematico del tempo che scorre, dell'effetto che fa sull'uomo l'accumularsi degli anni, l'avviarsi verso la vecchiaia, della capacità-incapacità dell'uomo di sperare in giorni felici mentre la morsa del count-down degli anni lo attanaglia, imprigionandolo senza neppure più riuscire a muoversi. Il testo, tradotto in italiano da Carlo Fruttero dalla drammaturgia francese di Ellen Hammer, aveva debuttato a Lussemburgo (in francese) per poi passare in Italia al festival di Spoleto la scorsa estate. Arriva a Jesi in esclusiva regionale. Un vento impetuoso scuote il sipario di seta bianco, che, aprendosi, svela un vulcano dentro il quale è imprigionata Winnie. Appena le luci si alzano si comprende che il presunto vulcano in realtà è una eruzione in mezzo all'asfalto, come se la figura umana premesse da sotto l'asfalto per liberarsi, spezzando la nera cortina in grandi scaglie, le cui linee ripide si stagliano triangolari contro il fondoscena sapientemente illuminato dallo stesso Wilson (“... se non fossi trattenuta in questo modo volerei via, se la terra non mi trattenesse... piantata con le gambe in questa terra merdosa”). Il vento sibilante torna come sottofondo in alcuni momenti e, all'inizio del secondo atto, fa precipitare a terra il sipario bianco. Gli oggetti del testo ci sono tutti: spazzolino, dentifricio, occhiali, cappellino, medicina, pistola, parasole e soprattutto la sporta, oggetti che creano una ritualità in cui si esaurisce la vita di Winnie. Le risorse di Winnie sono inesauribili, dalla sorpresa di trovare una formica viva alla curiosità di leggere le scritte sullo spazzolino: solo per cercare un motivo di felicità, un accento che renda il presente un giorno felice. A dominare è l'inazione, l'incapacità di compiere le azioni per la paura stessa di compierle: Winnie non può muoversi, Willie non riesce a parlare (“... mi era sembrato succedesse qualcosa, invece niente è successo”). Winnie non è completamente sola in questo deserto: il marito appare in alcuni frammenti più che altro strisciando a terra, senza riuscire ad articolare parole di senso compiuto e limitandosi a suoni gutturali. Struggente il carillon che suona “Tace il labbro” dalla Vedova allegra, mentre uno sfondo dipinto con scena montana idilliaca cala dall'alto come per magia per poi presto sparire. Nel secondo atto Winnie è intrappolata sino al collo ma riesce comunque a gioire dei suoni (“giorni felici quando sento dei suoni; una volta credevo che fossero nella mia testa”), suoni che non sono altro che sibili di vento, piccoli strappi, lacerazioni. Domina su tutto il senso di astrazione, di immaterialità, di immutabilità, sottolineato da tubo al neon-lampo. La presenza di lui (Willie, Yann de Gravel) non aggiunge nulla né crea un diversivo all'assoluta centralità totalizzante e totemica di lei, al diluvio di parole che non riesce però né a creare quella realtà agognata né, purtroppo, a resistere al deserto fuori e dentro l'umanità. Certo è che il non riuscire ad articolare parole di lui aumenta nello spettatore il senso di ansia claustrofobica, di impossibilità-incapacità per l'uomo di comunicare. La domanda rimane nell'aria, senza risposta: che cosa è un giorno felice? La regia di Bob Wilson (autore anche di scena e luci) spinge sull'estetismo e sulle sfumature coloristiche create dalle luci suggestive, ora lunari e fredde, ora scoppi improvvisi, ora tagli inattesi, che lasciano sempre in controluce il vulcano d'asfalto per giocare con la parete di fondo scena, esaltando il viso della protagonista, su cui sempre si gioca la rappresentabilità di questo testo. Adriana Asti ha grandi, mobilissimi occhi, amplificati da un trucco pesante. Pubblico inizialmente poco convinto, alla fine molti applausi per la protagonista. Visto a Jesi (AN), teatro Pergolesi, il 15 gennaio 2010 FRANCESCO RAPACCIONI
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