Alla fine degli anni Trenta le leggi razziali, in precedenza approvate, consentivano allo Stato la confisca dei beni immobili degli ebrei, molti dei quali intestarono (con una clausola di ripetizione a parte) le loro proprietà a dei prestanome, spesso collaboratori domestici o dipendenti. Questi ultimi, nei casi in cui i loro padroni non tornarono dai lager, si trovarono all'improvviso possidenti agiati. Come i protagonisti del dramma di Gianni Clementi. Siamo nel 1956 in un lussuoso appartamento rimasto immutato per anni nell'arredo (c'è persino una menorah). Immacolata e Marcello Consalvi fanno vita da ricchi ma senza averne la tranquillità e la naturalezza in ambienti che, è evidente, non appartengono loro (accurata la scena di Max Nocente, completata dai costumi di Teresa Acone ed illuminata efficacemente da Stefano Pirandello).
Immacolata è implacabile con gli affittuari che non pagano, Marcello prova a farle capire che anche i morosi hanno bisogno di avere un poco di respiro ma lei non cede, memore degli anni di miseria. Per Marcello la dignità è un valore anche nell'indigenza, per Immacolata nella miseria non c'è dignità. La donna è implacabile coi sottoposti, conta i soldi come fossero l'unica ragione della vita, segna tutto con precisione maniacale. Una vita assestata ma non felice, incompresi dai loro stessi amici di un tempo (da lei trattati come dei pezzenti) e mai entrati tra le famiglie ricche del ghetto, anzi guardati con sospetto dagli uni e dagli altri, tutti invidiosi, secondo Immacolata. Che invece ama esibire sfacciatamente il lusso, come per il matrimonio della figlia (che manco la regina di Inghilterra) e con quei regali ancora esposti per casa.
Fino a quando un giorno l'ebreo torna. Immacolata e Marcello lo vedono dall'occhio magico del portone, poi in strada da dietro le finestre. Ed entrano in una spirale nera e claustrofobica che li fa confondere la realtà con l'immaginazione. Il testo si fa incalzante, complici le musiche allusive dei De Scalzi ed i suoni inquietanti di Hubert Westkemper.
Immacolata diviene furiosa, una specie di lady Macbeth di borgata. Fa credere al marito che l'ebreo abbia abusato di lei (quando invece era omosessuale), in questo modo convincendolo della necessità di ucciderlo. Poi estorce a Tito, un amico di Marcello, la complicità a sbarazzarsi del corpo dell'ebreo dentro un tappeto, dopo che loro avranno provveduto ad ucciderlo; Tito accetta per soldi, il lavoro di idraulico è faticoso e rende poco.
Però i due, accecati dalla cattiva coscienza e divorati dai fantasmi interiori, finiscono per uccidere un loro caro amico, non riconoscendolo. Evidentemente l'ebreo era nei loro pensieri tormentati, appunto un caso di cattiva coscienza che si materializza.
Partendo da un testo serrato, scritto in un dialetto romano accurato, il regista Enrico Maria Lamanna riesce ad imprimere allo spettacolo la necessaria tensione intima da vero noir, il cui pathos è aumentato dai momenti di risata. È parso non necessario il frammento con l'ebreo nel campo di concentramento dietro i fili spinati con sottofondo la voce di Hitler, a creare una materializzazione che disorienta lo spettatore.
Interessante il contrasto nella drammaturgia tra i caratteri dei protagonisti. Marcello (Duccio Camerini), nella nuova vita, si è sempre sentito fuori luogo, senza dignità e invece vorrebbe vivere sereno, con poco denaro ma con affetti sinceri; è rimasto un gagliardo e verace “ragazzo” di bottega. Ad Immacolata (Ornella Muti) la dignità mancava prima, nella miseria, ora invece è soddisfatta di un tenore di vita che si ostina pervicacemente a condurre a disprezzo di tutti (“io indietro non ci torno”); a tratti mostra un lato umano che cerca di soffocare, schiacciata dall'ambizione. Mimmo Mancini è lo stagnaro Tito, immigrato dalla natìa Puglia, soffocato dalle ristrettezze economiche e dalle necessità della famiglia, inevitabilmente attratto dalla bellezza di Immacolata e dal miraggio dei soldi.
Teatro tutto esaurito, pubblico richiamato da Ornella Muti; molti applausi per tutti.