“L’incoronazione di Poppea” (1643), ultima opera di Monteverdi, è considerata una pietra miliare del melodramma per lo stile nuovo che modella il testo sulle esigenze drammatiche della musica e l’argomento storico che per tratta con realismo avvenimenti e personaggi reali dalla individualità ben definita. Mentre il libretto è pervenuto nella sua integralità, per quanto riguarda la partitura non ci sono certezze, sopravvivono due fonti manoscritte diverse, una di Napoli e una di Venezia, la cui paternità potrebbe essere riconducibile a un’opera collettiva in cui Monteverdi si avvalse di collaboratori. Non essendoci indicazioni strumentali, nel corso degli anni sono state proposte versioni differenti della partitura, dalle rielaborazioni sinfonico–wagneriane all’asciutta essenzialità ispirata a criteri filologici (l’opera dà infatti piena libertà per la scelta dell’orchestrazione e delle voci da assegnare ai diversi ruoli a seconda del gusto e dell’ottica interpretativa del direttore).
L’edizione presentata a Firenze segue l’ultima edizione critica del musicologo Alan Curtis, che in questa occasione svolge anche la funzione di cembalista e direttore di un piccolo organico formato dal Complesso Barocco e una ridotta compagine d’archi dell’orchestra del Maggio Musicale.
I pochi elementi dell’ensemble strumentale accompagnano con discrezione le arie e i recitativi; l’orchestrazione è estremamente contenuta per mettere in rilievo tutte le sfumature del canto, la sua drammaticità intrinseca nonché ogni variazione ritmica e dinamica. La strumentazione ridotta, un suono “secco” e tempi piuttosto dilatati limitano i coloriti dell’opera e tengono a freno l’emozione, ma il rigore filologico mette in pieno risalto la purezza delle linee vocali, la nobiltà scolpita del recitar cantando ed il caleidoscopio degli “affetti”, facendo assurgere il bellissimo quanto spietato libretto a protagonista, ed è proprio grazie all’immediatezza del linguaggio del Busenello che vengono colti i personaggi e le loro passioni.
Pierluigi Pizzi firma come di consueto regia, scene e costumi del nuovo allestimento, realizzato in coproduzione con i teatri di Venezia e Madrid, dove ha debuttato con successo l’anno scorso.
Una piattaforma girevole mostra di volta in volta la facciata di marmo bianco venato della dimora di Poppea ed il suo giardino stilizzato, il palazzo di Nerone evocato da un doppio ordine di colonne bianche e nere e l’abitazione di Seneca, una “insula” in cui sono incastonati come mattoni numerosi volumi. Nel ruotare della scena si alternano superfici concave e convesse, in un contrasto cromatico bianco–nero esaltato dalle quinte e dal pavimento a specchio in un raffinato gioco di doppi e riflessi tutto barocco. L’allestimento porta il segno elegante di Pizzi e la sua ricerca di un classicismo atemporale che non intende storicizzare la vicenda ma che comunque trasmette un’ideale di romanità nelle linee architettoniche severe e nel largo uso di marmi venati.
Lo spettacolo ricerca l’equilibrio fra dramma e commedia, ma manca di una teatralità autentica e il racconto, che si presterebbe a un bel passo narrativo, latita, volutamente bloccato in una stasi neoclassica. Dei vari aspetti la componente sensuale è quella maggiormente sottolineata. Poppea ha dal suo primo apparire una forte carica erotica che avvolge anche gli altri personaggi di cui vengono, con qualche forzatura, evocate pulsioni omosessuali: all’inizio soldati lascivi mimano atti fallici con le spade e Nerone si abbandona a languide carezze con Lucano mentre pregusta l’incontro con Poppea.
Di grande fascino i costumi femminili, raffinati abiti da sera senza tempo evocativi del personaggio: l’abito peplo dorato esalta la sensualità di Poppea e le sue forme, elegantissima e severa Ottavia in una tunica di maglia argentea liberty e lunare, un abito sottoveste di raso bianco riflette la purezza di Drusilla e nel finale i due amanti d’oro vestiti fanno sgorgare il canto d’amore davanti a uno sfondo nero, la ricerca del piacere come sfida alla morte.
L’esecuzione musicale funziona per merito di un cast omogeneo e curato anche nei ruoli minori.
Susan Graham è una Poppea dai mezzi vocali sontuosi e sfoggia una linea morbida screziata di vellutate ombreggiature, il canto è temperamentoso e giocato su più corde, le si può rimproverare di non essere una “barocchista” doc, ma ne esce un personaggio fatto di carne e dolcezza. Si distingue l’Ottone di Anders Dahlin, tenore “contraltino” dal fraseggio agile e squisito e una linea di canto curata che si modula perfettamente sul personaggio ambiguo e sfuggente. Ottimo il Nerone di Jeremy Ovenden, appassionato e vibrante, di una sensualità torbida e appassionata come il suo caldo timbro tenorile. Di Ottavia José Maria Lo Monaco sottolinea l’austerità tragica con un canto di nobile oratoria ed il lamento “Disperata regina”è uno dei momenti più alti della serata. La Drusilla di Ana Quintans, oltre ad essere incantevole e aggraziata, risulta l’unico personaggio positivo e senza ombre, come la sua voce limpida e precisa. Matthew Brook è un Seneca autorevole ed ambiguo, ma vocalmente non abbastanza incisivo. Molto bene l’Arnalta affidata alla voce maschile di Krystian Adam, irriverente e grottesca, assolutamente perfetta per le scene di carattere; nel ruolo en travesti convince anche Nicola Marchesini, una nutrice misurata e ironica. Completano adeguatamente il cast Serena Malfi nel duplice ruolo di Fortuna e Valletto, Anna Kasyan in quello di Virtù e Pallade e Francesca Lombardi Mazzulli come Amore. Juan Sancho e Nicholas Phan sono due pretoriani, Maria Laura Martorana una damigella.
Un pubblico particolarmente concentrato ha assistito con grande attenzione al lungo spettacolo tributando alla fine lunghi ed entusiasti applausi.