Capitolo due, di Neil Simon: dialoghi serrati, stringenti, i cui i protagonisti utilizzano per lo più sempre lo stesso tono di voce. Ed è una voce monocorde, stilizzata, con poche inflessioni e sfumature: che rivelerebbero troppe cose sull’emotività dei protagonisti. E non sia mai che questo accada.
In generale la parola, in sé, è neutra: sono gli esseri umani a darle vita e significato, con la loro voce, la loro personalità che traspare dalle inflessioni, dal tono più o meno caldo, più o meno freddo.
Nella vita vera non c’è una voce perfettamente uguale all’altra. Invece i personaggi di questa commedia di Neil Simon parlano tutti allo stesso modo: forse perché non sono persone, ma tipi umani stereotipati. Le intonazioni sono limitate al massimo: giusto per evitare l’effetto “lettura elenco telefonico”.
Perché questo insistere sulla voce, sull’intonazione? Perché è la chiave di volta per comprendere la poetica di Neil Simon e la riuscita di questo allestimento del regista Massimiliano Civica, che lo ha voluto e cercato in questo modo, partendo dalla traduzione e dall’adattamento: che sono sempre suoi.
Battute al vetriolo, ma sono risate amare
Il testo è incalzante, la comicità è al vetriolo, la battuta spiazzante arriva all’improvviso eppure attesa perché costruita dalle parole precedenti: si ride un sacco, applausi a scena aperta. Il mondo moderno è un paradosso: nell’era dell’iper comunicazione, della sovrabbondanza di comunicazioni e di strumenti di comunicazione, il mondo è dominato in realtà dall’incomunicabilità profonda e quindi vera.
Simon e Civica prendono i nostri difetti, i tic, le manie, le paure, le difese emotive e mentali di tutti noi cittadini, abitanti del mondo urbano contemporaneo, li asciugano di ogni personalismo, li rendono universali, li moltiplicano per mille rendendoli iperbolici e poi li rovesciano sugli spettatori: che poi ridono dall’esterno senza rendersi conto che sono proprio loro, quelli di cui si sta parlando in scena.
Non c’è bisogno di andare tanto lontano per convincersi di questa interpretazione di Capitolo Due, basta osservare la scena pensata da Luca Baldini. Un uomo e una donna; due stanze lontane che in realtà sono una. Ti accorgi che sono due perché cambiano gli arredi e i colori. Quella di lui ha toni e colori sul grigio/buio. Quella di lei ha i toni del rosso/giallo ed è luminosa. Ma in entrambi i casi sono colori plastificati, freddi.
La tragicommedia dell'incomunicabilità
Le stanze sono lontane, ma a separarle in scena ci sono solo due centimetri: quelli che separano i due tavolini su cui ci sono i due telefoni, bianco per lui e rosso per lei. L’incomunicabilità non ha bisogno della distanza fisica. Lui è intraprendente, si dà da fare per conquistare lei, ma sotto-sotto non è che abbandoni un granché le sue difese: e lei pure.
Anche il titolo aiuta a capire questa tragicommedia, che rappresenta una svolta per la vita personale e professionale di Neil Simon. In Capitolo Due, Simon elabora il lutto per la morte della sua prima moglie: Capitolo Due è il secondo capitolo della vita dell’autore. La trama è presto detta.
George è uno scrittore di gialli che non riesce ad accettare la vedovanza. Il fratello Leo, che lavora a Broadway come ufficio stampa, cerca di farlo uscire da questa situazione presentandogli Jennie, un’attrice teatrale alle prese con il fallimento del proprio matrimonio con un giocatore di football.
A muovere le fila dell’incontro c’è anche Faye, migliore amica di Jennie e aspirante regina delle soap opera. Ma, mentre Leo e Faye cercano con ogni mezzo di far scoccare la scintilla e si ritrovano ad avere una tresca dagli esiti incerti, George e Jennie decidono di sposarsi, dopo solo 15 giorni dal loro primo incontro, inaugurando così il loro “secondo capitolo di vita”.
George, Jeannie e la "Dolorosa gioia di vivere"
Aldo Ottobrino nel ruolo di George e Maria Vittoria Argenti nel ruolo di Jeannie sono superlativi; molto efficaci Francesco Rotelli nel ruolo di Leo e Ilaria Martinelli nel ruolo di Faye: ma la scelta di tenerli uno scalino sotto gli altri due, è stata una scelta registica. Non potevano essere altrettanto efficaci per non rubare i riflettori ai due protagonisti.
Alla fine trionfa l’amore. Ma non c’è una grande felicità, un grande scioglimento emotivo: anzi. Si sposano perché sono innamorati? Forse. Ma anche per fare qualcosa, per continuare a vivere. Dice bene il regista Massimiliano Civica: George e Jeannie raccontano con empatica e dolente consapevolezza “quella dolorosa gioia che è vivere”.