Un Edipo Re agghiacciante, questo di Andrea De Rosa. Una tragedia greca non può essere che agghiacciante, è vero: ma qui il regista ha scelto di premere a fondo il pedale dell’acceleratore, toccando il parossismo. Esci dal teatro dopo un’ora e 20 di tensione spasmodica, frastornato dagli effetti sonori e luminosi, convinto di avere assistito a una vera tragedia, non edulcorata; convinto di avere visto una rappresentazione fatta bene.
Ma esci anche con il pensiero: “Meno male che erano solo 80 minuti, perché non sarei stato in grado di resistere un minuto di più”. E questo è sia un bene che un male: operare a lungo lo spettatore senza anestesia, senza permettergli di elaborare lo spettacolo a livello intellettuale, rischia di ottenere l’effetto contrario.
Questo Edipo Re ti travolge con gli effetti luminosi e soprattutto sonori, che producono un forte impatto essenzialmente emotivo più che razionale. E’ un pugno nello stomaco: ci sta, visto l’argomento, ma sarebbe meglio non abusarne.
Abbiamo assistito ad allestimenti della tragedia di Sofocle privi completamente di scenografia. Attori vestiti magari in modo moderno: ma con le stesse identiche parole, ovviamente, e con la stessa recitazione lacerata e lacerante. In quel caso riesci a mediare con la razionalità, con il tuo cervello, la tua storia e la tua cultura: qui, no. E quasi certamente è proprio l’effetto voluto.
Una scenografia opprimente
Ti accorgi che sarà un Edipo Re diverso dal solito quando ci sono le luci spente e gli attori devono ancora entrare in scena. Sei rettangoli di vetro ad altezza d’uomo, ma il tema del rettangolo domina ovunque. Il rettangolo è spigolo, durezza: non è l’armoniosa accoglienza del cerchio. Inevitabile, visto che Tebe sta morendo per la peste, e non è tempo di armonia.
Per lo stesso motivo la scenografia è buia, spettrale, lunare. Tagli di luce violenti, ma caldi: infernali più che spettrali. Tutto ricorda il film 2001, Odissea nello Spazio, nella scena in cui viene ritrovato il Monolite sulla Luna. Le luci sono disposte in cerchio attorno ai protagonisti, abbagliano lo spettatore, è c’è pure un lampo finale: ma in generale è una luce buia, scura, che non illumina.Ma più che la vista, è il suono l’elemento dominante.
Sei attori interpretano tutto: i protagonisti, i messaggeri, il dio Apollo, il Coro. Tutto inizia con un canto funebre, preghiera straziata e straziante in greco, intonato dal coro: cui danno corpo e voce Francesca Cutolo e Francesca Della Monaca.
Suoni distorti e soprannaturali, disturbanti
Spesso nel corpo di questa messa in scena ricorrono vocalità sopra le righe, sovracute, quasi soprannaturali, che hanno un effetto dirompente anche grazie a un’amplificazione esagerata. La voce viene usata come effetto speciale, sembrano suoni provocati da una macchina: come in una scena che ricrea il suono di una lametta passata sui vetri. Non si vede il perché di stravolgere la voce umana (con i relativi possibili rischi per la fisiologia) invece di ricorrere a strumenti oggi ampiamente disponibili.
Edipo/Marco Foschi è efficace nel ruolo di chi è al contempo malattia e cura. Frédérique Loliée incarna bene il turbinio incestuoso inconsapevole, che ha ritrovato l’amore materno e lo ha scambiato per amore coniugale. Ti accorgi che Tiresia/Roberto Latini entra in scena quando uno dei rettangoli di vetro ha una banda opaca all’altezza degli occhi.
Fabio Pasquini mette in scena un Creonte credibile. Domina su tutto la figura di Apollo, il dio obliquo, incomprensibile. Un dio spesso considerato solare e aggraziato e invece capriccioso, vendicativo, infantile, ambiguo, competitivo, sanguinario: come risulta dalla preghiera-invettiva che Andrea De Rosa ha chiesto al traduttore Fabrizio Sinisi di aggiungere al testo.