La sfida di fondo, quando si parla di teatro e carcere, è fare di un luogo di detenzione uno spazio aperto alla cultura, di ripensare il concetto di riabilitazione oltre quello della punizione. Il teatro in carcere si è mostrato un viatico consolidato per aprire le porte degli istituti di pena italiani. Tra mille difficoltà, traversie, successi e insuccessi, la pratica del teatro in carcere è assurta a un livello strutturale e creativo altissimo.
Come ricorda il critico Massimo Marino nei Quaderni di teatro e carcere: «Il risultato, per ora, è il cammino, con tutti i dubbi, le difficoltà, le idee, le cose riuscite bene e quelle risultate meno felici. È la sfida al grigio dei corridoi, ai muri sempre un po’ scrostati, ai soffitti bassi, alle guardie entusiaste e a quelle annoiate, sbrigative, ai detenuti che si fanno coinvolgere e rivelano qualcosa di sé, tanto da farti credere, forse illudere, che un cambiamento è possibile; o restano indifferenti, curiosano un po’, scappano, ridono al di là del vetro, ti rivolgono quella stessa maschera che sempre offrono in una istituzione della quale hanno imparato a diffidare».
Racconta il regista Sandro Baldacci: «In questo spettacolo, dopo aver affrontato il tema della reclusione manicomiale in Padiglione 40 e quello della giustizia in Billy Budd, la compagnia degli Scatenati, citando palesemente il film dei fratelli Taviani Cesare deve morire, affronta questa volta il tema della violenza di genere. In un contesto sociale in cui la violenza sulle donne occupa quotidianamente un posto di primo piano nella cronaca nera, questa rivisitazione visionaria di Otello, l’archetipo shakespeariano di tutte le gelosie, si prefigge lo scopo di scandagliare le deviazioni psicologiche che possono spingere un uomo a trasformare “il più bel sentimento del mondo” in un incubo atroce. Senso del possesso, megalomania, rifiuto di immedesimarsi nell’“altro”, incapacità di affrontare la realtà del cambiamento. Queste le storture che, unite a pochezza intellettuale, spingono gli autori delle violenze a ritenere di potersi erigere a giudici e carnefici delle proprie vittime, trasformando così le loro esistenze, parafrasando Bernardo Bertolucci, in “tragedie di uomini ridicoli”».