Per quanto possa sembrare incredibile oggi, alla prima assoluta della Traviata di Verdi-Piave (Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853) Violetta, Alfredo e Giorgio Germont indossavano abiti settecenteschi. Difficile è immaginarsi una Violetta Valery con la parrucca in testa, il neo sulla guancia e il volto coperto di cipria, eppure a questo stratagemma ricorsero gli autori per cercare di rendere meno scioccante per il pubblico la scandalosa attualità della vicenda. Inutilmente: alla prima il tragico destino di Violetta, uno dei personaggi più umani e toccanti dell’intera storia del melodramma, fu fischiato (il successo arrivò quattordici mesi dopo al Teatro di San Benedetto, sempre a Venezia). La popolarità dell’opera e la cantabilità dei suoi temi rischiano oggi di far dimenticare la forza innovatrice che ebbe all’epoca l’ultimo capitolo della “trilogia popolare” verdiana. La traviata fu un’opera di rottura, paragonabile solo, forse, nell’Ottocento, sotto questo aspetto, alla Carmen di Bizet (che però è di una ventina di anni dopo). Entrambe mandano in soffitta i drammoni storici, rinunciano alle trame intricate di derivazione libresca per mettere in scena la realtà così com’è. La “traviata” è una prostituta vittima di una società borghese perbenista e ipocrita che celebra se stessa nei soldi buttati al gioco e in feste tanto eleganti, luccicanti, quanto vuote. Secondo un immaginario tipicamente ottocentesco la prostituta è, in Traviata, un personaggio in cui la dissolutezza del comportamento non impedisce la bontà dei sentimenti e la sincerità dell’animo: anzi, Violetta è esattamente quella figura di donna corrotta nel corpo ma pura nell’animo che da un certo momento in poi dilagherà in letteratura e al cinema (la “prostituta dal cuore d’oro”). La sua capacità di sacrificio (la rinuncia all’amore per salvare il buon nome della famiglia di Alfredo) impressiona persino Giorgio Germont, il padre di Alfredo, personaggio tutto d’un pezzo chiamato a impersonare la “morale”. Tratta da La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio, La traviata è più immortale dell’originale per un motivo molto semplice: in Dumas non c’è la musica di Verdi, capace qui come non mai di amplificare la psicologia e i sentimenti dei personaggi. Basta pensare alle prime note del Preludio, il tema della malattia e della morte di Violetta, così delicato, impalpabile, ultraterreno, eppure così doloroso e tragico.
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Regia:
Marco Gandini
Autore:
giuseppe verdi