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Corre, si dispera e urla: Ugo Dighero è un Arpagone davvero esplosivo, la vera anima dell’Avaro diretto da Luigi Saravo, pieno protagonista di una commedia teatrale interessante, ma dall’adattamento non pienamente efficacie. Rappresentata per la prima volta nel 1668, L’avaro è una commedia in cinque atti composta da Molière e ambientata a Parigi, nella casa di Arpagone.
Il drammaturgo francese in quest’opera riprende e sviluppa uno dei caratteri tipici del teatro classico, ovvero il personaggio del vecchio avaro consumato dal costante timore d’essere derubato, e lo arricchisce di una trama amorosa di spessore costruendo una commedia intrigante e dalla struttura complessa.
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Luigi Saravo ripropone l’opera di Molière e dirige L’avaro utilizzando un coraggioso mix: mantiene la storia originale, con grande fedeltà del testo, trasponendola però in chiave moderna e inserendo nella messinscena oggetti e richiami attuali. Sia la regia di Saravo che l’adattamento curato da Letizia Russo risultano entrambi accurati e precisi, tuttavia sono spesso troppo contrastanti tra loro, tanto che in alcune occasioni sembra venir meno la sospensione dell’incredulità del patto narrativo con lo spettatore.
Il registro recitativo “storico”, ad esempio, stride con i selfie dei personaggi, mentre la scelta dei costumi non sembra richiamare un momento temporale ben definito e la scena del cambio d’abito di Elisa, di per sé interessante, sembra fuori luogo rispetto al contesto. Nell’insieme la rappresentazione manca quindi di omogeneità e l’effetto di alcuni elementi è il medesimo dei “reperti fuori posto” in archeologia.
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Storia antica, ambientazione moderna: il compromesso mancato
Avarizia scellerata, matrimoni combinati e gioco d’azzardo sono i veri protagonisti dell’Avaro di Molière: Arpagone è un vecchio che vive nella costante paura di essere derubato da servitori e parenti ed è così ossessionato dal danaro da pianificare un matrimonio di convenienza per sua figlia Elisa e da osteggiare l’amore di suo figlio Cleante, cercando di sposare lui stesso la ragazza di cui questi è innamorato.
I veri sentimenti dei giovani, il livore dei servitori e il colpo di scena di un inaspettato ricongiungimento familiare scompagineranno i piani di Arpagone che sarà costretto ad assistere a un duplice matrimonio in attesa di riavere il suo amato tesoro. Tutte vicissitudini che, senz’altro, possono essere attualizzate sia per le vicende sentimentali che per la critica al consumismo, tuttavia ricercando un giusto compromesso strutturale.
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Buone interpretazioni attoriali, ritmo da ritrovare, poca comicità
Ugo Dighero è davvero molto bravo nel caratterizzare Arpagone: paranoia, egoismo, cinismo ed egocentrismo, sono parte di un caleidoscopio di atteggiamenti che colpiscono il pubblico con grande efficacia grazie a un’interpretazione attoriale di livello. Nonostante Dighero dimostri grandi capacità anche nei ruoli drammatici, le sue qualità ironiche e comiche potevano essere sfruttate maggiormente inserendo ulteriori gag presenti, troppo sporadicamente, solo nella seconda parte.
Buona e di grande credibilità l’intesa recitativa tra Carolina Leporatti (Elisa) e Fabio Barone (Valerio), mentre Paolo Li Volsi (Mastro Giacomo) e Stefano Dilauro (Cleante) risultano in prove attoriali di grande carattere e presenza scenica.
Da migliorare il ritmo della rappresentazione: parte molto bene nella scena iniziale che vede protagonisti Elisa e Valerio, ma in tutta la prima parte è troppo basso e alcuni momenti (il servo da scacciare, l’elenco dei beni nel contratto con l’usuraio) non risultano di valore aggiunto. La seconda parte, invece, cambia passo e risulta più piacevole. Molto interessante e originale il finale-beffa con la pioggia di contante e il balletto in stile musical. Buona l’idea del madrigale pubblicitario, con spot retrò-futuristici capaci di restituire un’efficace immagine critica di consumismo religioso.
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La scelta delle musiche e dei costumi, invece, non crea valore aggiunto: su entrambi gli aspetti si poteva agire in maniera diversa per aumentare la contestualizzazione della messinscena.
La scenografia, infine, risulta criptica: è senz’altro funzionale e poliedrica nelle diverse scene e rimanda l’essenzialità e la mancanza di fronzoli che ci si aspetta nella casa di un avaro, tuttavia è poco piacevole e troppo asettica mancando di riferimenti temporali definiti. I pochi vecchi oggetti e alcuni abiti chiusi all’interno di una vetrina moderna sembrano un richiamo a trattare in maniera preziosa i propri averi come fossero inestimabili reperti di un museo, ma nel caso è un parallelismo troppo articolato e poco immediato.
In conclusione L’avaro è una rappresentazione con una buona recitazione, arricchita da alcune gag divertenti, ma con un’efficacia ancora da perfezionare.