E' una delle opere che più poggiano sulla figura della protagonista, la Lucia di Lammermoor in scena al Teatro Verdi di Trieste. Se manca un'interprete all'altezza, son dolori. Non è di sicuro il caso della Jessica Pratt che ritroviamo in forma smagliante, come a volersi rifare dei problemi di salute dichiarati alla prima.
La disinvoltura acrobatica, la piena resa delle colorature, l'agevolissima salita ai sopracuti, la pirotecnica perizia, lo smalto angelico e la scandita dizione si accompagnano nel soprano inglese ad una profondità interpretativa impareggiabile, umana e dolente, permettendole di aderire in pieno a quello che Rodolfo Celletti definì“un ritorno alle malinconie estatiche, quintessenziate, del melodramma «1830»”. Il pubblico triestino, di solito un po' sussiegoso – soverchianti le presenze deutschsprachige in sala – lo avverte subito, tributandole calde e meritatissime ovazioni.
Un tenore prima affannato, poi rilassato
Al suo fianco troviamo Ivan Magrì, che dà il cambio nelle ultime due recite a Francesco Demuro, che a sua volta sostituiva l'annunciato Stefan Pop, indisposto. Il giovane tenore catanese ha dalla sua il pregio d'una voce calda, rotonda, assai generosa, e di bel colore; ma entra in scena infervorato, rivolgendosi a Lucia con tono sostenuto, la linea di canto spianata e poco fraseggiata, come in un'ansia da prestazione; e replica tale concitato atteggiamento nell'irruzione al ricevimento nuziale. Però alla fine, al momento del «Tu che Dio spiegasti l'ali» cambia registro, l'animo si placa; e consegna una nobile, più filtrata interpretazione, offrendo un'accorata linea di canto dove finalmente si intravedono attraenti sfumature e le giuste mezzevoci. E anche lui, in questo modo, si conquista un bell'applauso a scena aperta.
L'entusiasmo di un commercialista
Il baritono russo Maxiim Liisin canta con destrezza vocale e proprietà di stile, ma nel suo rigido Enrico pone l'ardore di un commercialista alle prese con la redazione di un bilancio. La ieratica e protettiva figura di Raimondo trova compiuta espressione nel canto solido ed aristocratico di Carlo Lepore. Men che modesto ahinoi il trio dei comprimari: Nicola Pamio (Normanno), Enzo Peroni (Arturo), Miriam Artiaco (Alisa). Paolo Longo ha preparato con buona cura gli interventi del buon Coro triestino.
Daniel Oren dirige come al solito con impeto e passione, con lui mai ci s'annoia. Spicca la visione fortemente teatrale, felicemente varia nelle cadenze e nei colori, che sfocia in una concertazione che sa ben rendere le brumose atmosfere scozzesi. Tiene serrate le fila dell'Orchestra del Verdi, che sentiamo in forma smagliante, e guida con estrema attenzione le voci sul palco. Spiace tuttavia abbia tagliato l'importante scena della Torre di Wolferag; in compenso non sacrifica la consolante aria di Raimondo «Ah! cessate di sospirar», dalla nobile eloquenza.
Regia senza fantasia
La deludente messinscena curata da Bruno Berger–Gorsky, proveniente dall'Ópera de Las Palmas dove andò in scena giusto due anni fa - sempre con la Pratt - è quanto di più statico e didascalico di possa immaginare. La regia è portata avanti con poca fantasia e con minimo lavoro scenico su coro e solisti: un risultato invero mal sopportabile per un'opera così fortemente 'romantica' e d'infuocate passioni.
Nondimeno il regista tedesco s'inventa un'immaginaria gravidanza di Lucia – trovata alquanto assurda - e mette in moto persino un ridicolo 'trenino' di invitati alle nozze. Roba da avanspettacolo. Le scenografie di Carmen Castañón si riducono quasi solo a grandi videoproiezioni, non sempre consone a quanto succede in scena (c'è persino un feto ruotante). I costumi di Claudio Martín sono la cosa migliore dell'allestimento canario, nel loro porsi a mezzo tra folklore scozzese e fogge moderne.
Nota finale: quanto il pubblico triestino fosse felice di rivedere il capolavoro donizettiano, dopo appena sette anni di assenza, lo testimoniano le recite tutte praticamente sold out, Nella nostra, in sala non c'era spazio neppure per un topolino.
Non è certo nuova l’attenzione per i classici per Federico Tiezzi che, dopo Medea e Antigone, questa volta mette al centro del suo spettacolo Fedra, figura femminile protagonista nei testi dei noti tragediografi ellenici Euripide e Seneca, e che qui è presentata nella versione di Racine, tragedia in cinque atti scritta dall'autore francese nel 1677.
Quando il sipario è ancora chiuso, sul proscenio appare con abiti scintillanti e ventagli di piume la regina Fedra (la luminosa Elena Ghiaurov): come una showgirl, danza e canta sinuosa accompagnata da due vallette. Di impatto questo inizio, pronto a introdurre lo spettatore in una dimensione onirica, che tuttavia è breve, prima di entrare nella dura realtà della tragedia di Racine e al nocciolo della questione con l'apertura del sipario.
L'impostazione dello spettacolo Fedra firmato Federico Tiezzi è classica e la drammaturgia fedele al testo di Racine. La classicità è insita nella teatralità quasi canonica della recitazione degli attori, quasi delle statue viventi all'interno di una scenografia tradizionale che ricostruisce un salotto d'altri tempi, dove tra lampadari antichi e teste di statue greche si interpone uno sfondo mobile e mutevole. Fedra è uno spettacolo che si muove tra teatro e sogno, tra gelosie accecanti e evocazione agli dei, tra perpetuo disordine e ricerca di strategie per uscirne. L'abisso della disperazione è il fulcro di ogni vicenda, dove ogni personaggio è ben delineato e ha un ruolo ben preciso all'interno della tragedia.
Fedra è una tragedia in cinque atti scritta da Jean Racine nel 1677. La regina Fedra è in preda a una passione prorompente per il suo figliastro Ippolito (interpretato da un notevole Riccardo Livermone), nato dal primo matrimonio del marito Teseo (Martino D'Amico). Ippolito, innamorato di Aricia (Catherine Bertoni de Laet), non ricambia i sentimenti della regina e quest'ultima, per sete di vendetta e per gelosia, farà in modo, che Ippolito venga accusato di stupro.
Il testo messo in scena è quello tradotto dal poeta Giovanni Raboni, che, per dirla con Tiezzi, va a doppiare continuamente il verso già poetico di Racine andando a prediligere un teatro di poesia, basato sul verso poetico recitato. Il ritorno del re Teseo segna l'inizio della tragedia, dell'abisso in cui i personaggi sprofondano, tra disperazione e vendetta, vergogna e desiderio di morte, perchè come si afferma all'interno dello spettacolo, la morte non spaventa gli infelici.
Il difficile e doloroso viaggio di Fedra verso la fine che si autoinfliggerà, il dibattersi tra altare e miseria da insuccesso, tra vendetta, vergogna e ossessione per la morte, trova compimento nel rapporto con Enone (con l'intensa interpretazione di Bruna Rossi), sua custode e consigliera, quasi una psicoterapeuta onnipresente, ma anche elemento di presagio di morte e di male.
Enone ha le sembianze della Morte, indossa un lugubre abito nero. Infatti nelle intenzioni di Racine, Enone è colei che accuserà Ippolito di stupro e non Fedra, togliendo alla regina un ruolo così infamante e ponendola su un piano superiore, più dignitoso. Il nero è un colore che ritorna all'interno dello spettacolo anche negli abiti di Fedra e nel divano-sepolcro al centro del salotto.
Questa tonalità è simbolo di austerità, ma anche morte, di un destino ignoto, del male. Tutti i protagonisti, hanno la figura di un custode-psicanalista accanto: c'è Enone per Fedra, Ismene (Valentina Elia) per Aricia, Teramene (Massimo Verdastro) per Ippolito. Tutti hanno un segreto, tutti si confidano, tutti possono provare vergogna.
La scena apparentemente statica si trasforma gradualmente in una scena a scatole apribili con sfondo mutevole (si alternano un quadro, la statuetta di un lupo e un bonsai), che acquisisce tridimensionalità e spessore grazie all'uso di luci di scena (di Gianni Pollini) che scandiscono gli spazi per renderli profondi e sempre più abitabili dalle emozioni che si addensano e faticano a venir fuori, rendendo il palco saturo di tensione, tra flusso di coscienza, desiderio e disperazione.
La regia di Federico Tiezzi conferma l'imponenza di un testo così complesso di cui tuttavia risulta ardua l'impresa della messa in scena, che non ottiene gli esiti migliori. Inoltre nonostante la recitazione sia di un alto livello con un cast di tutto rispetto, sembra essere troppo concentrata sugli aspetti tecnici e poco su una resa anche emotiva che riesca a rendere la tragedia nella sua autenticità all'interno di un nuovo contesto, quello odierno.
Restano quindi in primo piano gli aspetti estetici con il risultato di uno spettacolo fuori dal tempo che sembra rincorrere il concetto di bello, ma in cui è difficile scorgere sfumature distintive e memorabili in tempi più prossimi.
Ricordare o cercare di ricordare qualcosa che è stato rimosso dalla propria mente, può diventare un percorso efficace di ricostruzione degli eventi, ma anche un processo di ricerca di un sé dimenticato che prova ancora a riaffiorare e farsi spazio nella vita di ognuno. Ebbene ricordare è ciò che fa Davide Enia nello spettacolo Autoritratto dove, la memoria su Palermo sua città natale, viene ricostruita a partire dai delitti di mafia che qui, diventano fotografie scattate nella mente, paesaggi sonori che rimbombano e fanno tremare, traiettorie da percorrere per investigare sulle strutture linguistiche che hanno costruito la realtà da ieri sino a oggi.
La vicenda personale di Davide Enia viene raccontata attraverso il potere delle parole, perchè, come gli aveva insegnato il suo professore di religione padre Pino Puglisi ammazzato da Cosa Nostra, “è importante nominare le cose”. Enia attraverso la scrittura e il teatro scava nella sua terra, riattraversa i luoghi per riviverli usando il filtro del tempo che, per dirla con sue parole “permette allo sguardo di farsi chirurgo”.
Diventa osservatore della realtà utilizzando un espediente originale, quello di ascoltare e raccogliere testimonianze e ricordi di amici, amiche, conoscenti e rapportandosi con tre funzionari della DIA (Direzione Investigativa Antimafia). Il risultato è quello di un monologo corale dalla forte carica emotiva dove, il passaggio da un ricordo all’altro segna un cambio di scena, ma anche di prospettiva, che può essere solo immaginato.
Immagini scolpite nella mente, cuori scalfiti, scenari di sangue si susseguono veloci dentro un road trip per le strade di Palermo, dove è facile trovare sotto casa un morto ammazzato da Cosa Nostra. Aveva solo 8 anni Davide Enia quando, ha visto il primo morto ammazzato non lontano dalla sua abitazione.
Il testo dello spettacolo è tratto da Autoritratto Istruzioni per sopravvivere a Palermo edito da Sellerio Editore. Il titolo fa riferimento a un episodio dei tempi del liceo, quando Enia aveva pensato di scrivere il testo per una performance su Palermo che aveva intitolato Settimana Santa proprio perchè ad ogni istruzione aveva associato un giorno della settimana.
Lo spettacolo Autoritratto è suddiviso in episodi, ognuno legato a delle persone di cui Enia ha fatto il ritratto attraverso l’uso delle parole. Gli episodi spaziano dalla famiglia alla scuola, dagli amici sino al rapimento e uccisione del ragazzino Giuseppe di Matteo, dall’assassinio di Padre Puglisi, all’omicidio di Falcone a Capaci, fino al delitto di Borsellino in via d’Amelio. È intenso il modo in cui alla parole viene associata la gestualità, volta a sottolineare e a evidenziare gli accenti e i toni di enunciazione delle parole.
Le parole diventano strumenti esplosivi come quelle bombe che ogni giorno andavano a modificare il paesaggio sonoro tra le strade di Palermo. Le parole vengono scandite, lanciate, scaraventate, soffocate. L’abilità di Enia nel catturare l’attenzione è notevole. Non si risparmia nel raccontare di come avvenivano i delitti di Cosa Nostra: la lingua italiana viene unita al dialetto palermitano con naturalezza, come un racconto spontaneo che ha voglia di farsi sentire senza l’uso di filtri.
C’è una forte correlazione tra il suono, il canto e la scenografia. Perchè la scena è gremita di persone con il paradosso che, queste persone non sono fisicamente sul palco, ma all’interno di un paesaggio sonoro stratificato fatto di voci, perchè Palermo, dice Enia, è confusione.
La scena infatti è completamente spoglia con le pareti alte e sbiadite e una sedia, come in una vecchia foto in bianco e nero. Ricorda i casolari rupestri oppure quelle strade di Palermo piene di gente, in realtà luoghi di morte e desolazione dove vengono disseminati ovunque germogli di mafia.
A dare colore alla scena è la componente sonora (di Giulio Barocchieri) con una chitarra grunge unita all’uso dell’elettronica in una commistione con sonorità trip hop alla Portishead, dove i suoni si alternano ai canti popolari siciliani composti ad hoc per lo spettacolo in cui a cantare è anche Davide Enia insieme a Barocchieri e al grido dei venditori palermitani usato per pubblicizzare la merce in proprio possesso per le strade di Palermo, l’abbanniàta appunto, per dirla in gergo popolare.
Autoritratto è uno spettacolo toccante e forte, dove il processo di scrittura ha avuto una componente determinante ai fini di una buona riuscita, dove il Teatro di Narrazione riconferma il suo potere comunicativo nello stile e nel lavoro di approfondimento e autoanalisi del regista e attore palermitano, dove si comprende che, per vedere la realtà, non basta guardarla, ma è opportuno trovarne gli strati per riviverli e capirli.
Nella vita il confine tra il riso e il pianto è estremamente labile e sfumato, oggi come ai tempi di Anton Čechov. È questo il messaggio dei tre atti unici firmati dal drammaturgo russo che Peter Stein ha riunito sotto il titolo Crisi di nervi: L’orso, I danni del tabacco e La domanda di matrimonio. Questi “scherzi scenici”, come li definì lo stesso Čechov, sono stati adattati da Stein e Carlo Bellamio, offrendo al pubblico un’esperienza teatrale che fonde comicità e introspezione.
La regia di Stein è caratterizzata da un rigore estetico e una precisione che valorizzano la verve comica di Čechov. Non ci sono sbavature, la barra del timone tra comicità e dramma è tenuta con maestria al centro. Si ride, ma non si scivola nella farsa: di sottofondo rimane l’idea che se il testo fosse recitato con intonazioni e mimiche diverse, ci sarebbe da piangere più che da ridere. I tre atti sono raffinati ed essenziali grazie a una regia sempre attenta e precisa.
Le scenografie di Ferdinand Woegerbauer e i costumi di Anna Maria Heinreich ricreano l’atmosfera della Russia rurale di fine 800, mantenendo però una freschezza contemporanea. Il messaggio è chiaro: cambiano i costumi, ma l’essere umano nel profondo è sempre lo stesso.
Il cast, composto da attori esperti come Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Alessandro Sampaoli, Emilia Scatigno e Sergio Basile, sa bilanciare sapientemente ironia e profondità emotiva. Si comincia con La domanda di matrimonio, un registro dichiaratamente comico: un padre e una figlia litigano con il padrone di una proprietà confinante per i soliti futili motivi di vicinato, ma tutti gli attriti svaniscono magicamente se si ventila l’ipotesi di un matrimonio.
Il matrimonio non si fa? Allora ricominciamo a litigare, più forte e stupidamente di prima. Čechov ironizza sulle convenzioni sociali e sulle dinamiche amorose, mostrando come l’orgoglio e la stupidità possano prendere il sopravvento anche nei momenti più delicati.
Poi c’è il registro quasi dolente di I danni del tabacco, con Gianluigi Fogacci perfetto nel rendere la psicologia ripiegata su sé stessa del protagonista. Infine si torna a ridere con L’orso. Anche qui l’amore nasce nel modo più improbabile: un creditore burbero si presenta a casa di una giovane vedova per esigere un pagamento, ma i due finiscono col duellare e poi con l' innamorarsi. Una satira pungente su ruoli di genere, vendetta, amore e la maschera delle emozioni, in una danza di tensione e attrazione.
Crisi di nervi esplora le nevrosi borghesi e le dinamiche relazionali con un’ironia sottile e una comicità paradossale. Čechov anche qui mostra la sua straordinaria capacità di tratteggiare personaggi vividi, colti nei loro paradossi quotidiani, tra comicità e struggimento. In poche battute, ci regala ritratti autentici e universali, dove il confine tra riso e pianto è sottilissimo.
E' un traguardo lusinghiero vincere un European Opera-directing Prize, concorso di Opera Europa Next Generation e del circuito OperaLombardia, volto a promuovere creatività e professionalità di giovani artisti under 35. L'ha conseguito Marialuisa Bafunno con un progetto concernente la messinscena de La bohéme di Puccini, coinvolgente oltre a lei in veste di regista e costumista, Eleonora Peronetti per la scenografia, Gianni Bertoli per le luci ed Emanuele Rosa per le coreografie.
Il loro allestimento ha debuttato lo scorso settembre a Como - primo dei teatri di Opera Lombardia ad ospitarlo - e quindi è andato in scena quest'aprile al Regio di Parma, coproduttore dell'impresa, insieme al Valli di Reggio Emilia dove arriverà ai primi di maggio. Qui una delle recite è stata ripresa e diffusa sul web dal canale OperaStreaming (visibile qui), dove possiamo rivederla con comodo. E se in prima battuta agivano i vincitori del Concorso Aslico 2024, qui sulla Via Emilia gli interpreti son tutti mutati. Resta però lo stesso direttore, il venticinquenne Riccardo Bisatti.
Il giovane maestro novarese stavolta è a capo della Filarmonica di Parma. Tirate le somme, non pare abbia idee solide su come condurre di questo capolavoro pucciniano, sicché si fatica a capire dove vada a parare la sua visione musicale. Poco coerente nelle scelte agogiche, la sua concertazione diviene a tratti confusa e chiassosa, inciampa persino in qualche sbandata nell'intesa fra buca e palcoscenico. Si avverte la mancanza di esperienza e maturità, che determina un senso di indeterminatezza, un procedere musicale ondivago che non giova al godimento della buona compagnia di canto radunata sul palco del Regio.
Al posto del previsto John Osborn, incontriamo il Rodolfo di Atalla Ayan, tornato in Italia dopo aver interpretato nel 2019 a Torino il Des Grieux della Manon di Massenet. L'approdo a Puccini pare proficuo: a parte la freschezza di suono e la spontaneità d'emissione, la sua voce possiede indubbie attrattive, e lo sussidia l'estro e la scintilla del buon fraseggiatore. E' evidente che il giovane tenore brasiliano 'sente' internamente il personaggio, restituendolo affettuoso e cordiale; e per questo trova giusto affiatamento con Roberta Mantegna - interprete che, diciamolo, tuttavia gli sta una spanna sopra – intrecciando un tenero flirt con la sua Mimì dai fini tratti elegiaci. Una figurina qui squisitamente adolescenziale attraversata da striature dolenti, dipanata dal soprano palermitano con notevole perizia – la voce morbida, di smalto fine, ricca di sfumature di colore - e con finissima sensibilità musicale.
Persuade sino in fondo anche l'estroverso e vocalmente generoso Marcello di Alessandro Luongo, interprete felicemente espressivo ; vale lo stesso per la Musetta di Maria Novella Malfatti, che si fa apprezzare per canto elegante – il suo valzer scorre dolcemente ammiccante – e convinta recitazione. Per inciso, era lei a interpretare Mimì per OperaLombardia.
Ricchi di musicalità, di verve ed irruenza - ma senza eccessi, con loro non affiorano mere macchiette - lo Schaunard di Roberto Lorenzi e il Colline del basso russo Alexei Kulagiu. Eugenio Maria Degiacomi infonde compiuta caratterizzazione a Benoît e Alcindoro: due personaggi che la regia ha voluto all'incirca coetanei dei quattro bohèmiens, cosa che non ci trova concordi.
Corretti il Parpignol di Francesco Congiu, il venditore di Matteo Monni, i doganieri di Angelo Lodetti e Matteo Mazzoli. Ottimi gli interventi del Coro del Regio, diretto da Martino Faggiani; le piccole Voci Bianche sono preparate da Massimo Fiocchi Malaspina.
In scena, l'ambientazione dei quattro quadri cade più o meno ai giorni nostri: in abiti moderni Rodolfo è un giornalista/fotografo che usa ancora una macchina da scrivere portatile, Marcello dipinge tele astratte, Schaunard è un violinista eccentrico dalle tendenze gay, Colline un vivace ecologista.
Un'opzione rappresentativa vista e rivista, divenuta praticamente normale, che ormai non scandalizza nessuno. Salvo magari Alberto Veronesi (leggi Torre del Lago 2023). Unica novità della rassicurante e didascalica regia, la presenza di un anziano, pensieroso Rodolfo – è affidato al mimo Marco Bonucci - che a levar di sipario scova in una vecchia scatola un quaderno di poesie, una candela, una foto... e la famosa cuffietta rosa.
E la vicenda dei sei bohémiens prende a scorrere nei suoi nostalgici ricordi come in un pulsante dejà-vu. Di per sé, la cosa funzionerebbe, se finisse qui. Poi, però, lo vediamo entrare direttamente in scena, e la sua presenza – nel quadro della Barriera d'Enfer si mette addirittura di mezzo fra Rodolfo e Mimì - diventa alla fine un tantino ingombrante.
Creata sulle anguste tavole del Teatro di Busseto in occasione del Festival Verdi 2024 (vedi la nostra recensione), transitata poi nella Rete Lirica delle Marche, la rilettura de Un ballo in maschera del giovane regista Daniele Menghini approda infine nello smisurato palcoscenico del Comunale Nouveau di Bologna, ma qualcosa della magia originale sembra perdersi per strada.
Come già annotato allora, questo Ballo evidenzia un palese rimando al Gustavo III (la versione primigenia dell'opera, avanti le modifiche imposte dall'occhiuta censura) cui spettò inaugurare il Festival Verdi 2021, messo in scena da Jacopo Spirei – con Menghini a fungere da assistente – portando ad effetto un'idea del compianto Graham Vick. Un rimando avvertibile nelle scene affollate da figure sessualmente ambigue, in pose ammiccanti e atteggiamenti queer, immerse in un contesto di decadenza morale, benché in quest'ultima ripresa il protagonista perda certe pose gay devianti dallo scenario verdiano.
Tirate comunque le somme, la regia di Menghini presenta una spiccata originalità, mettendo in campo una drammaturgia provocatoria certo, ma coerente; che punta tutto su una cupa, nervosa teatralità, e cura una quantità di piccoli dettagli. Non tutti centrati, però.
In scena, i personaggi si muovono con scatti inquieti, con mosse concitate, accentuando l'atmosfera lugubre come in un romanzo di Stephen King. Un ruolo non secondario, in questo, l'hanno gli espressivi mimi mossi da Marco Caudera. Si dilata oltremisura al Nouveau la spettrale, cimiteriale scenografia di Davide Signorini, con neri cherubini dal volto di teschio, con un trono che si ricopre sempre più di orribili crani, avendo sullo sfondo una parete di legni bruciati, e scuri gradoni sparsi qua e là.
Le luci crepuscolari di Gianni Bertoli restituiscono uno spazio tenebroso ed arcano, e la sfrenata fantasia di Nika Campisi sfocia in costumi metà rinascimentali, metà moderni, suggerendo una collocazione atemporale. Unica critica da muoversi al regista spoletino è quella di essersi fatto prendere la mano, e aver ora montato al Nouveau uno spettacolo ridondante, a tratti eccessivo.
Sul versante musicale, le cose procedono diversamente. La savia bacchetta di Riccardo Frizza pare ignorare lo straripante horror barocco che invade la scena, ed imposta una direzione controllata, asciutta, quasi severa. Tiene ben saldo il timone di una navigazione musicale mirabile, che smussa un po' le enfasi verdiane e restituisce un serrato arco narrativo. Più che un racconto musicale 'a blocchi' – tanti quanti sono i quadri che si avvicendano – ne cerca e trova, in un procedere musicale raffinato, l'unità drammatica, come in un canto largo e disteso. E porge un colorito, cangiante tappeto sonoro agli interpreti.
Due i cast in cartellone; ma a causa di un'indisposizione, Anastasia Bartoli passa la mano a Maria Teresa Leva pronta a farsi carico delle cinque recite previste. Amelia è ruolo verdiano tecnicamente impervio, che vorrebbe un autentico soprano drammatico, e l'artista calabrese tale non ci sembra. Nondimeno, ha dalla sua un timbro robusto, di bel velluto, assai attraente nel registro medio-grave; tecnicamente ferrata, ragiona bene con la testa, ed ancor di più con la voce. Porta dunque a casa un risultato invero importante, consegnando una figura di per sé complessa – madre, moglie, amante - musicalmente a tutto tondo, psicologicamente rifinita, in scena espressivissima.
Fabio Sartori, si sa, quanto a recitazione ha qualche limite; ma nel canto ha ben pochi rivali. Un Bergonzi dei giorni nostri, in un lusinghiero raffronto. Ha dalla sua musicalità fresca e spontanea, ottimo controllo del respiro che gli permette una bella varietà di dinamiche, un'emissione calda e vibrante, d'invidiabile timbro e colore. Mettici in aggiunta anche la varietà di fraseggio, ed ecco un Riccardo ammirevole, estroverso , accattivante. Una vera gioia per le orecchie.
Nell'aggiungere un'ulteriore figura al suo curriculum verdiano, Amartuvshin Enkhbat porta in dote al suo Renato la prerogativa di quella sua voce rotonda e possente, prodiga di volume e generosa in armonici, sorretta da una linea di canto aristocratica ed un fraseggiare impeccabile. In tal guisa il suo personaggio, nel suo subitaneo trasmutare emotivo, sbalza tutto intero.
Silvia Beltrami offre un'Ulrica più terrestre che soprannaturale, ben cantata ma poco incisiva; Silvia Spessot un Oscar deliziosamente frivolo, agile e canoro; Andrea Borghini un Silvano baldanzoso ed irruente.
Le parti di contorno vedono i due congiurati Samuel e Tom beneficiare delle sonore voci – ma con dizione da perfezionare - di Zhibing Zhang e Kwangsik Park; il giudice è Cristobal Campos Marin, il servo d'Amelia Sandro Pucci. Impeccabile il coro felsineo diretto da Gea Garatti Ansini.
Moby Dick alla prova: il respiro epico del mare, dell’uomo in lotta contro sé stesso, la natura, il destino. Il respiro epico del teatro nel teatro, che diventa metafora delle nostre stesse vite e delle parti che recitiamo per noi stessi e gli altri. Se era una scommessa, Elio De Capitani l’ha vinta.
Nel suo adattamento di Moby Dick alla prova, Elio De Capitani affronta la sfida di portare in scena questo dramma di Orson Welles, a sua volta ispirata al romanzo di Herman Melville. Lo spettacolo si presenta come metateatro: una compagnia si prepara a mettere in scena il Re Lear, ma l’impresario-capo comico propone invece di provare una nuova tragedia, Moby Dick. Attraverso questa struttura, Welles esplora le connessioni tra Shakespeare e Melville, tra la tempesta del Lear e la balena bianca, simboli di forze incontrollabili e ossessioni distruttive.
La regia di De Capitani è essenziale e potente. Il palco è spoglio, con pochi oggetti che prendono vita grazie all’interpretazione degli attori e alle musiche dal vivo di Mario Arcari, qui in versione di polistrumentista. C’è una forte valenza simbolica degli oggetti scenici.
Nel Moby Dick di Melville domina l’idea della morte come eventualità tutt’altro che remota: la morte è la compagna quotidiana e silente del marinaio che lotta contro i suoi mostri e i suoi fantasmi, le sue ossessioni. Qui, in scena, abbiamo due alte scale con le ruote, di quelle che vengono utilizzate nei cimiteri per raggiungere i loculi più alti; e tre tavoli di acciaio con le ruote, come quelli usati negli obitori. Il resto sono corde sospese, ad evocare alberi e sartie della nave: e una specie di sipario trasparente su cui proiettare le immagini dell’odissea marina.
Questa scelta scenica richiama l’approccio di Welles, che nel suo adattamento originale puntava sull’immaginazione del pubblico per evocare l’oceano e la balena. Il risultato è uno spettacolo che, pur nella sua semplicità scenica, riesce a trasportare lo spettatore tra i marosi delle tempeste e nella mente ossessionata del capitano Achab.
Elio De Capitani, nei panni dell’impresario/Achab, offre una performance intensa e sfaccettata. Il suo Achab è un uomo consumato dalla sua stessa ossessione, ma anche consapevole della follia del suo inseguimento. Ma non può fare altrimenti. Accanto a lui, un cast affiatato e versatile dà vita ai vari personaggi della ciurma, alternando momenti di coralità a monologhi profondi.
Le musiche dal vivo, le luci curate da Michele Ceglia e i costumi di Ferdinando Bruni contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa tra realtà e finzione, tra il palco e l’oceano. La scena finale, in cui la balena non c’è ma si percepisce, è un esempio di come il teatro possa evocare l’invisibile con mezzi semplici ma efficaci.
Moby Dick alla prova è uno spettacolo che riflette sul potere del teatro e sull’ossessione umana per l’inconoscibile. Si esce dal teatro pensando che anche Melville sarebbe stato soddisfatto di questo adattamento del suo capolavoro.