Il tempio dell’opera dell’America Latina è senz’ombra di dubbio il teatro Colón di Buenos Aires, che ha presentato in ottobre una nuova opera dall’emblematico titolo Bebe Dom o la ciudad planeta. Dopo il successo di Fedra, il compositore residente del Teatro Mario Colusso ha affrontato un nuovo progetto di opera, basata sul libretto dello scrittore e poeta uruguaiano Horacio Ferrer, in Italia conosciuto per aver dato le parole all’unica opera di Astor Piazzolla, Maria de Buenos Aires.
Un’utopia immagina il mondo diventare una città: anche se con un tocco di immancabile bandoneon, si tratta in gran parte della più genuina arte lirica, lavoro che ha confermato l'abilità e la competenza del suo autore nella composizione per voci e orchestra, grazie alla sua vasta esperienza come insegnante e regista al teatro Colón. Una metropoli che non è né Parigi, Roma, Tokyo o Buenos Aires, che non è piena di tanghi, come si potrebbe sospettare dalla collaborazione con Ferrer che fu negli anni ’60 a fianco di Piazzolla. La metafora del mondo città fa volare su un immaginario spesso onirico e surreale, in cui quattro personaggi principali, tra le migliaia in una grande metropoli, si incrociano, si scontrano, si ignorano, si amano, si idealizzano e si denigrano: Bebe Dom, architetto sognatore, frustrato e sempre ubriaco, beve in una solitudine senza inizio e senza fine; Farges, il banchiere, è avido e cadrà vittima della sua stessa avidità; la bella cabarettista Lili, figlia di Farges, soggiogata al vizio e innamorata di Bebe Dom; Gea, segretaria di Farges, disgraziata vittima di tutti gli intrighi. Continui scambi tra i quattro in uno scenario che gli autori svolgono in mezzo ad assassini nella notte, coppiette romantiche, parassiti della società, mendicanti, lavoratori, delinquenti, pie donne, comici e ambulanti. Ma sopra i quattro e da essi ignorata è Alma City, personaggio chiave, che con le sue continue trasformazioni dialoga e commenta le assurde vicende direttamente con il pubblico che reagisce un po’ con stupore.
La trama onirica e surrealista dove si mescolano passato, presente e futuro ci mostra il degrado umano delle grandi città, la solitudine, gli amori impossibili, i padri e i figli distanti su questioni morali, la corruzione, la droga, l’alcool, l’ansia irrefrenabile di fare soldi senza limiti etici, la disoccupazione, le crisi, la necessità d’amore, l’impazienza, l’angustia, gli inganni in un finale che però lascia scorgere uno spiraglio di luce e speranza.
L’opera si struttura in due lunghi atti, il primo di dodici scene e il secondo di dieci. La scenografia di Marcelo Perusso è imponente e degna della maestría che uno scenario d’opera impone e i continui cambi di scena si susseguono senza chiusura di sipario, in modo quasi naturale nonostante ogni quadro sia ricchissimo di elementi.
Mario Perusso adotta il linguaggio che ha caratterizzato la produzione dei suoi ultimi anni: tonalità e atonalità, con un'orchestra di struttura e di dimensioni normali, con i gruppi corali che non raggiungono l'entità di un gruppo completo e con la tendenza a essere fedeli al melodico.
Una produzione coraggiosa, forse un po’ troppo avanguardista per un pubblico certamente abituato al classico e che si confronterà in dicembre con Un ballo in maschera, l’ultimo titolo della stagione 2013.
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