I contigui bicentenari della nascita di Verdi e Wagner – artisticamente, due corazzate imbattibili - hanno trovato molto spazio, nei teatri come nei mass-media, ed hanno finito col collocare un po’ in secondo piano un’altra ricorrenza di notevole interesse: i centi anni cioè dalla nascita di Benjamin Britten, il maggiore compositore inglese del Novecento, per non dire il più importante in assoluto. Comunque lo si valuti, tra i rari talenti musicali apparsi in terra d’Albione l’unico a ritagliarsi - insieme al Purcell di “Dido&Aeneas” - un ruolo impriscindibile nel repertorio corrente.
Le creazioni teatrali del musicista di Lowestoft non trovano il loro punto di forza solo sulla componente musicale in sé: il suo linguaggio non appare difatti né inedito né innovatore, collocandosi nell’ambito di un elegante e piacevole eclettismo stilistico, dove esso esercita la sua abilità di raffinatissimo ‘arrangiatore’ di mescolanze timbriche e di creatore di squisite combinazioni sonore. Piuttosto, la capacità di attrarre lo spettatore, e di coinvolgerlo emotivamente scaturiscono piuttosto dalla capacità di calare la musica, con meravigliosa abilità, su libretti che hanno piena consonanza con la sua personalità artistica, e sopra tutto con il suo lato umano: quello cioè di un artista che viveva la propria omosessualita con disincanta e snobistica ironia, ma che tuttavia non poteva ignorare il peso del negativo giudizio morale di parte della società di quegli anni. I libretti che gli confezionarono di volta in volta Montagu Slater, Ronald Duncan, Eric Crozier, Myfanwy Piper (ai quali quasi sempre collaborò personalmente), presentano sempre dei fili sottili ma evidenti che legano ogni soggetto all’altro: perché il temi di base rimangono sempre l’incapacità dei protagonisti di essere ‘normali’ rispetto ai canoni imposti dalla collettività, l’impossibilità di essere accettato da una borghesia perbenista, l’inevitabile conflitto tra la sfera privata – in questi casi, la percezione di sé, della propria diversità - e le convenzioni sociali e morali calate ed imposte dall’alto. Così in un rapida sucessione, a partire dal “Peter Grimes” del 1945 e poi in “The rape of Lucretia”, “Albert Harring”, “Billy Budd”, “Gloriana”, “The Turn of the Screw” – testimonianze di un decennio di esaltazione creativa - e poi infine nel tardo e crepuscolare “Death in Venice” del 1973, Britten ci offre tutta una superba galleria di personaggi asociali e ‘perdenti’: siano il rude Grimes, il timido Herring, il leale Billy Budd, i piccoli Miles e Flora, oppure il decadente Aschenbach.
Wagner e Verdi permettendo, per fortuna il compositore inglese si è ritagliato un suo spazio nei teatri e nelle sale da concerto, che hanno trovato vari modi di inserire i suoi lavori nei cartelloni. Anche il Teatro Nazionale Croato di Fiume ha compiuto uno sforzo non trascurabile, portando già nel maggio scorso in scena “The rape of Lucretia” – ne abbiamo già parlato in termini lusinghieri a suo tempo – ed ora presentando in questa premessa d’autunno un’ulteriore nuova produzione, “The Turn of the Screw”, sicuramente l’opera sua più ricercata e sofisticata.
Non è qui il caso di addentrarsi su tutti i problemi interpretativi di un libretto magistrale, al quale a lungo lavorarono sia Myfanwy Piper, sia lo stesso Britten; e la cui ossatura drammatica deriva dalla omonima novella di Henry James, testo celeberrimo dal complesso intrico di atmosfere e di ambigui significati psicologici, che vengono mirabilmente trasfusi nel libretto stesso. Il lettore mi capirà, lo spazio necessario sarebbe troppo. Un breve commento però è bene farlo: l’ascoltatore – a meno che non possieda una cultura musicale d’eccellenza – può non accorgersi del sottile schema che sta alla base della sua partitura, enunciato sin dalla splendida introduzione orchestrale denominata “Theme”; uno schema geniale, la cui ferrea struttura formale prevede una calibrata successione di scelte tonali di sottile logica e coerenza, ed è composta da quindici interludi orchestrali – definiti «variazioni» - a raccordo delle sedici scene. Però non resta indifferente alla strumentazione raffinatissima – un vero miracolo realizzato con soli tredici strumentisti – ed alla dirompente potenza drammatica messa in campo, che lo avvince in una sorta di ipnotica, stregante ragnatela: perché avverte di trovarsi di fronte ad un autentico capolavoro teatrale, originato da un capolavoro letterario, nel quale emerge una perfetta sintesi di ispirazione musicale e di sottilissima penetrazione psicologica di ogni personaggio. Quanto basta per fare di “The Turn of the Screw” l’opera forse più conosciuta di Britten, ed indubbiamente una delle pietre miliari dell’arte del Novecento.
Operando in coproduzione con il Teatro Nazionale di Sebenico – dove il lavoro è stato presentato in anteprima a settembre avendo sul podio Nada Matošević Orešković - e confidando nelle proprie risorse artistiche, il Teatro fiumano ha messo su uno spettacolo di ammirevole qualità, che poneva salde basi sugli eccellenti solisti della sua orchestra (con un paio di nomi italiani in lista) coordinati e dietti con maestria dal giovane direttore serbo Aleksandar Kojić: grazie alla loro sinergia, tutte le sezioni puramente strumentali hanno avuto un’esecuzione estremamente accurata e precisa, e sono state perfettamente rese le nevrotiche pulsazioni, l’incessante irrequietezza ritmica, ed i suoni arcani e iridescenti della partitura.
Le interpretazioni erano affidate a Sergej Kiselev (il Prologo), Marijana Prohaska (l’istitutrice), al tredicenne Sven Jagarinec (Miles), Martina Klarić (Flora), Nera Gojanović Kljajić (Mrs. Grose), Marko Fortunato (Quint),Vedrana Šimić (Miss Jessel). Nella bravura generale, e nella comune capacità di dare piena concretezza ai personaggi, un applauso in più lo darei a Marijana Prohaska, straordinaria per luminosità e finezza vocale, e per la grande varietà espressiva che rendeva adeguatamente l’affiorare continuo della repressa isteria della giovane istitutrice; e poi alla penetrante Grose di Nera Gojanović Kljajić, ed all’inquietante Quint di Marko Fortunato.
Il regista Ozren Prohić, che insieme a Dalibor Laginja ha anche disegnato le scenografie, ha saputo comporre uno spettacolo lucido nell’esposizione e drammaturgicamente coinvolgente, risolvendo le spinosità di un testo per nulla facile, nel quale conta moltissimo saper rendere appieno il clima di oscura suspence, e di ambiguo mistero che pervade la vicenda. In questo, molto contava l’aver sfruttato appieno, con notevole abilità, le apprezzabili risorse degli ottimi attori/cantanti a disposizione, ottenendo da loro una recitazione meticolosa. Istantanei cambi a vista, in scena pochi oggetti d’epoca tra cui una cabina-armadio polivalente che accoglieva i personaggi nel suo claustrofobico spazio, grandi cornici metalliche a scandire lo spazio, luci che esaltavano adeguatamente il clima di incombente mistero; sullo sfondo, di tanto in tanto la visione di astratte ed inquietanti video proiezioni in bianco/nero - opera di Ivan Faktor - che aumentavano il senso di angosciosa attesa del tragico epilogo. I costumi di sapore vittoriano, molto belli ed accurati, erano firmati da Sara Lovrić Caparin.
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