La diffusione dei lavori teatrali di Mozart, nell'Italia del primo Ottocento, è una storia senza storia. A parte il fatto che tutto il Romanticismo europeo relegò la produzione mozartiana - con l'unica eccezione del "Don Govanni" - in un ingiustificato oblio, considerandola musica garbata ma tutto sommato poco rilevante, mettendola al pari di tanta produzione settecentesca, è da tener presente che tutto il meccanismo del melodramma italiano - teatri, impresari, artisti e pubblico - rappresentava una struttura complessa ed auto referenziante, assai difficilmente permeabile alle novità ed attaccata alle proprie abitudini. Chi voleva avere successo nel Bel Paese, considerato l'epicentro del mondo musicale di allora - doveva insomma adattarsi al gusto nostrano, come fecero Händel o Hasse. Persino un nume come Meyerbeer, prima di assurgere definitivamente ai fasti del grand-opéra parigino si cimentò con lavori di stile prettamente italiano, concludendo il suo soggiorno in Italia con un lavoro magniloquente quale "Il crociato in Egitto".
Pietro Lichtental era un discreto compositore dilettante, nato nel 1780 a Pressburg; in veste solerte funzionario asburgico dimorò sin dai primi anni dell'Ottocento in quel di Milano, rimanendo per tantissimi anni alle dipendenze del Governatorato del Regno Lombardo-Veneto. Autore di molte composizioni di vario genere, e di un apprezzato "Dizionario e Bibliografia della Musica" edito nel 1826, fu un appassionato studioso e divulgatore dei lavori mozartiani, promuovendo le rappresentazioni milanesi di alcuni dei maggiori titoli del Salisburghese. L'operazione non andò in porto però con "Die Entführung aus dem Serail": sebbene avesse dedicato molto tempo a tradurne il testo in italiano (con esiti letterari modesti, a onor del vero), ed altrettanto ad adattare la musica ai gusti nostrani dell'epoca, nel 1838 le previste rappresentazioni alla Scala del suo "Ratto dal Serraglio" così italianizzato - ma dal sapore spiccatamente biedemeier - non ebbero luogo. E' sicuro, d'altro canto, che ben pochi allora fossero in grado d'apprezzare fino in fondo una partitura di grandissimo valore, certo, ma scritta quasi sessant'anni prima, dalla struttura e dallo stile - quelli cioè dello singspiel tedesco - lontanissimi dai gusti della maggior parte dei frequentatori dei teatri. E ciò a dispetto delle modifiche abbastanza invasive, seppure funzionali allo scopo prefisso e guidate dal grande amore per il suo idolo, apportate dal Lichtental all'originale affinché risultasse gradito ai milanesi.
Senza voler analizzare in dettaglio la 'nuova' partitura così rimodellata all'uso dell'opera semi seria italiana (decifrata e trascritta per l'occasione, a cura di Michele Canesso, dal manoscritto conservato al Conservatorio di Milano) vanno segnalati l'ovvio inserimento di recitativi secchi accompagnati dal fortepiano al posto dei dialoghi parlati, l'innesto di altre musiche mozartiane di disparata provenienza: come un breve interludio strumentale ricavato dalla "Marcia turca" K 331, o l'aria da concerto «Ch'io mi scordi di te» K 505 consegnata a Costanza; e persino due veri e propri Finali d'atto all'uso italiano, sempre elaborati su temi originali, che cassano le precedenti soluzioni mozartiane.
E' ormai una tradizione delle Settimane Musicali del Teatro Olimpico - giunta ora alla sua 21^ edizione - quella di recuperare partiture insolite o dimenticate. Limitandosi agli ultimi anni, dopo "Il flauto magico" dal testo in italiano - che Giovanni De Gomerra realizzò per il Teatro di Corte di Praga nel 1794, dopo "L'italiana in Algeri", "Il barbiere di Siviglia" e "Il turco in Italia" in versioni sempre 'originali' - cioè d'epoca - ma nondimeno differenti da quelle consuete, l'anno scorso è stata la volta di un "Don Pasquale" della Parigi del 1820. E quest'anno è venuto il turno di questa curiosa riproposta, affidata come sempre alla rara intelligenza ed alla finezza della bacchetta di Giovanni Battista Rigon, vero deus ex machina di tutte queste formidabili operazioni di recupero. In veste di concertatore, Rigon si trova perfettamente a suo agio nel repertorio tra Sette ed Ottocento, conoscendone a fondo non solo lo stile, ma anche i meccanismi e le necessità sceniche. Come sua consuetudine, ha saputo estrarre dall'agile Orchestra del Teatro Olimpico bellissimi colori, molta leggerezza e massima puntualità esecutiva; ed ha conseguito nell'insieme, grazie alla forte coesione con i cantanti, uno spettacolo molto accurato, ma allo stesso tempo divertente e spedito. Un plauso particolare deve andare ai bravissimi componenti del coro I polifonici vicentini, duttile ensamble di rara professionalità preparato da Pierluigi Comparin.
Filippo Morace era un Osmino estroverso e brillante, dalla grande incisività scenica; Francesco Marsiglia un Belmonte forse un po' algido ma molto raffinato, con un controllo dei fiati invidiabile, un centro solido e facile ascesa agli acuti chiari e sicuri; Sandra Pastrana una Costanza veramente commendevole, per la grazia vocale - ma non solo - infusa al personaggio, cui ha donato un morbido fraseggio e una grazia malinconica; Gabriele Sagona, la cui vocalità matura invita a nuovi positivi incontri musicali, s'è mostrato un nobile, e statuario Selim. Carlos Natale era uno spassoso e iperattivo Pedrillo, avendo a fianco la brava Tatiana Aguiar nei panni della graziosa e tondetta Bionda. Nell'insieme, un cast tutto di giovani cantanti appropriati per lo stile, preparato con cura, ben amalgamato e ben diretto, che ha meritato i grandi applausi dal pubblico.
Con lo spazio minimo concesso dal fronte palladiano dell'Olimpico, ridotto ancor più con l'orchestra ed il coro in palcoscenico, Antonio Petris ha immaginato una 'mise en espace' di poche ma sagaci mosse, che prende le mosse dall'entrata d'uno strillone che vende giornali al grido di "Edizione straordinaria!" annunciando il rapimento di tre italiani. Giornali acquistati subito dai componenti del coro, che continuano a leggerli avidamente seguendo l'andamento della storia. Per il resto, destreggiandosi nel poco spazio a disposizione e con pochissimi oggetti scenici (un aiuola di fiori in primo piano, un'idea di feluca sullo sfondo) Petris e gli interpreti hanno voluto mettere a prova la fantasia e la partecipazione del pubblico. I costumi di Marco Nateri sovrapponevano ad abiti neri qualche simbolo del personaggio: un grembiule da giardiniere, una camicia da marinaio, un mantello da pascià, una gonna di crinolina. Tutti bianchi oggetti di carta o altro, materiali poveri che giocavano felicemente sul contrasto così ottenuto.
La cavea del Teatro Olimpico era affollatissima in ognuna delle tre recite in programma: il che vuol dire grande amore per l'opera. A quando una stagione operistica, seppur magari modesta, in quel di Vicenza?
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