Teatro

Incontro con Renato Quaglia, Direttore del Teatro Festival Italia

Incontro con Renato Quaglia, Direttore del Teatro Festival Italia

Friulano, ha la tipica tranquilla determinazione dei suoi conterranei. La sua parlata pacata, semplice e gentile non nasconde, comunque, la sua volitiva capacità organizzativa e la sua personalità colta e creativa. Dal 2008 (quindi sin dalla sua prima edizione) dirige il Teatro Festival Italia a Napoli, città che, nonostante la distanza geografica e culturale dalla sua Udine, lo ha accolto con affetto e stima. Il teatro lo vede, sin dagli anni ’80, impegnato nel settore di ricerca ed innovazione, e di grande rilevanza sono stati gli 8 anni della sua guida alla Biennale di Venezia e il grosso lavoro, tra il 2003 e 2007, svolto per la prima volta nelle regioni del Sud Italia dalla Biennale stessa.
Lo abbiamo incontrato alla vigilia dell’inaugurazione ufficiale del Festival, su una delle terrazze del Palazzo delle Arti di Napoli, quartier generale della kermesse.

Quali sono le caratteristiche che identificano il Festival Teatro Italia e che lo differenziano da altri Festival teatrali italiani?
La prima caratteristica è quella di essere nato quando stavano arrivando gli “anni 10”. Gli altri festival italiani sono nati tutti alcuni decenni fa, quindi hanno una straordinaria tradizione storica, hanno delle caratteristiche, delle vocazioni, dei rapporti che hanno costruito con le proprie città nel tempo. Questo è invece un festival nuovissimo, che nasce da zero, e nasce in una città che non è la tipica cittadina come quelle dove siamo abituati a vedere gli altri festival in Europa o anche in Italia: non ha un piccolo centro storico, non ha una dimensione pedonale, è una metropoli. Una metropoli da 3.000.000 di abitanti, piena di contraddizioni e di difficoltà.

Quali invece le caratteristiche che identificano, nello specifico, l’edizione 2010?
Quest’anno il Festival incontra novi argomenti, dal tema della durata, al calcio, dal tango, all’uso delle tecnologie, o il rapporto fra vinti e vincitori. Conferma la propria attenzione, anzi quasi la necessità di cercare la città attraverso il rapporto coi suoi luoghi, attraverso il racconto teatrale che prende a pretesto e a riferimento la città stessa, quindi incontra artisti e spettacoli che raccontano Napoli da punti di vista eccentrici, non usuali, che rappresentano questa città, o la sua vita, non solamente a chi non la conosce, ma ai napoletani stessi, con quella originalità propria dello sguardo dell’artista. E d’altra parte il festival conferma una dimensione internazionale molto forte. Conferma, come era stato nell’edizione dello scorso anno, il cercare una formula di produzione internazionale, che non sia solamente finanziaria o di mera ospitalità ma che faccia lavorare insieme artisti italiani con artisti di altri paesi, per costruire esperienze nuove, che sono utili al nostro teatro che è molto nazionale e poco internazionale, e prepara, questo è il segno di quest’anno, ad un impegno verso il mediterraneo che sarà una delle direttrici su cui si giocherà l’edizione del 2011.

La presenza di autori classici quali Shakespeare, Moliere, Dostoevskij, sia nella sezione ufficiale che in quella del Fringe, seppur riadattati o comunque utilizzati solo come modello ispiratore, è sintomo, secondo lei, di una crisi creativa della drammaturgia contemporanea?
No, non conferma una crisi della drammaturgia contemporanea, perché talvolta questi classici diventano occasione per un discorso molto forte sull’identità. Il lavoro di Zeldin su “Romeo e Giulietta” non è una vicenda sfortunata tra due amanti, ma uno scontro generazionale fra padri e figli, ambientato in comunità di immigrati nel nostro Paese, e la Compagnia Teatrale Europea, a cui è affidato questo lavoro, con questa regia, con questa impostazione, non è composta da attori italiani, francesi o belgi come è stato negli altri anni, ma è composta da attori che sono i nuovi cittadini europei, figli di immigrati di prima o seconda generazione. Giovani europei le cui radici sono però nel Nord Africa e nel Medio Oriente. Oppure, ancora, un grande classico come “Delitto e Castigo” di Dostoevskij è presentato da Gaetano Ventriglia, artista che lo scorso anno era presente nel Fringe, come un lavoro itinerante per lo spettatore, che dura due pomeriggi, nel corso dei quali egli è invitato ad accompagnarsi con gli artisti ad attraversare i Quartieri Spagnoli come fossero le strade dell’antica San Pietroburgo dove Dostoevskij immaginò le storie dei suoi personaggi. Oppure, ancora, la messa in scena classica che Peter Stein ha scelto per “I Demòni” (da pronunciare con l’accento sulla “o”, come suggerisce lo stesso regista), ma in una condizione particolarissima, poiché il pubblico è invitato a partecipare alla rappresentazione completa di questo lavoro, che dura dodici ore. Artisti e pubblico insieme creano una comunità teatrale, che rappresenta una forte esperienza soggettiva, che oltre a che fare col tempo che non siamo più in grado di dedicarci nei confronti di una storia, ha a che fare anche con un’idea di teatro che non si pone più il problema di come i classici vengano rappresentati, se in maniera tradizionale o innovativa, ma di come lo spettacolo si colloca con lo spettatore, e poco importa se per questa esperienza risulta più utile un testo classico o uno moderno, credo tenga più la sensibilità dell’artista.

Quali sono i momenti delle passate edizioni che ricorda più volentieri?
Sono i momenti in cui la città si è presa di volta in volta il Festival. Abbiamo cominciato nel 2008 con un gruppo di giovani professionisti napoletani che si è avvicinato ad una macchina organizzativa molto particolare in una città particolarissima. Non era affatto scontato che la città entrasse in rapporto immediato e diretto col Festival, tutte le volte che lo ha fatto ha rappresentato dei momenti che per noi sono stati felici. Un festival è sostanzialmente una città, e questo Festival vuole rappresentare la città e vuole che la città in questo Festival si rispecchi.

Come vorrebbe che si ricordasse l’edizione 2010 del Napoli Teatro Festival Italia?
Spero lo si ricordi per alcuni spettacoli molto belli, “Lipsinch” ad esempio (lo spettacolo di Robert Lepage che ha aperto in anteprima la kermesse, n.d.r.), spero che lo si ricordi per la capacità di questo Festival di creare, di rischiare. Noi abbiamo scelto di non essere un Festival vetrina, non stiamo presentando spettacoli di cui conosciamo già l’esito di fronte alla platea, di cui sappiamo se saranno applauditi e se desteranno emozione. Quindi abbiamo scelto il rischio, andando a cercare degli artisti che riteniamo capaci di costruire dei progetti, di innescare dei processi, di porsi in relazione con la città, di dare in qualche modo “origine al nuovo”. Questo è un Festival che mi piacerebbe fosse ricordato, nei suoi diversi appuntamenti, come un’occasione in cui spettatori e professionisti si son trovati di fronte a delle prove di futuro.

C’è un progetto a cui ambisce, magari da realizzare in un futuro prossimo?
Stiamo lavorando ad un importante progetto sul Mediterraneo, e, soprattutto, alla costituzione di una Fondazione che non deve solamente servire a realizzare un Festival, come forse nelle premesse la Fondazione Campania dei Festival era stata immaginata, ma che diventi il cuore pulsante, l’istituzione, a cui il Sud Italia possa far riferimento per una produzione culturale e di spettacoli, innovativa, rivolta al Mediterraneo e che cerchi di aiutare i processi di internazionalizzazione per le regioni del Sud che, come tutto il Paese, ha bisogno di guardarsi in una dimensione internazionale e non solamente locale.