Teatro

LUCI E OMBRE DI GUILLAUME TELL A PESARO

LUCI E OMBRE DI GUILLAUME TELL A PESARO

Onore al merito del Rossini Opera Festival che, per la seconda volta nella sua storia poco più che trentennale, affronta il cimento più arduo: mettere in scena l’estremo capolavoro del compositore pesarese in versione integrale. Le difficoltà dell’impresa solo in parte dipendono dalla lunghezza dell’opera (dopo tutto le dimensioni del Tell sono paragonabili a quelle del Tristano o dei Maestri Cantori) ed hanno più a che vedere con il suo stile composito e indefinibile. Vi sono inoltre parti vocali di elevata difficoltà (su tutte il proibitivo ruolo di Arnold), cori di notevole complessità, colori orchestrali affatto peculiari, danze assai elaborate. Per tentare di addomesticare una partitura così articolata, fin dalle prime rappresentazioni del 1829, è invalso l’uso di accorciarla drasticamente. Un simile approccio appare difficilmente condivisibile ai giorni nostri. Non si tratta, si badi bene, di sterili scrupoli filologici: Guillaume Tell rifugge dall’urgenza drammatica tipica dell’opera romantica e trova invece la sua essenza nella contemplazione del rapporto tra l’uomo - inteso come collettività - e la natura. Ora, questo rapporto si stabilisce e si consolida attraverso il lento procedere dell’azione, nell’ambito della quale cori e danze non costituiscono digressioni ornamentali fini a se stesse, ma, al contrario, rappresentano, nella loro fusione con l’elemento naturale, la sostanza stessa del dramma. Tagliare una parte considerevole della musica in nome di una maggior concentrazione drammatica tradisce lo spirito di un‘opera che rappresenta senza dubbio un unicum, non solo nell’ambito della produzione rossiniana, ma nella storia del teatro musicale. Eppure anche la maggior parte delle esecuzioni della storia recente sono state scempiate da tagli “di alleggerimento”: si pensi alla mediocre produzione parigina del 2003 abbreviata di circa un’ora, oppure a quella viennese del 2005, o ancora a quella zurighese del 2010, anch’essa significativamente tagliata e di qualità assai modesta sia sul piano musicale che su quello teatrale. La memoria di spettatore custodisce però anche alcuni ricordi di esecuzioni integrali (o quasi) ben altrimenti significative: l’inaugurazione scaligera del 1989 (regia non particolarmente ispirata di Luca Ronconi, ma straordinaria esecuzione musicale diretta da Riccardo Muti – a mio avviso la migliore, pur con la pecca della scelta della versione in lingua italiana); la produzione del ROF del 1995 (pregevole edizione firmata da Pier Luigi Pizzi, diretta da Gianluigi Gelmetti, con Michele Pertusi, Gregory Kunde e Daniela Dessì nei ruoli principali); l’esecuzione in forma di concerto a Roma nel 2011 con Antonio Pappano alla guida dell’Accademia di Santa Cecilia e un cast che annoverava Gerald Finley (forse il Guillaume più compiuto) e l’eccellente Arnold di John Osborn. Anche queste esecuzioni di grande rilievo evidenziano tuttavia un fatto indiscutibile: la produzione perfetta del Tell è praticamente impossibile. Il giudizio relativo ad una determinata esecuzione non può dunque che partire da questo postulato. 
 
Al netto di questa riserva di carattere generale, la nuova produzione proposta a Pesaro si segnala per una qualità nel complesso molto elevata. Sul podio, l’enfant du pays Michele Mariotti conferma di essere il più talentuoso dei direttori italiani dell’ultima generazione. Mariotti sceglie un passo tendenzialmente agile e alleggerisce il tessuto strumentale, rendendolo terso e trasparente. Questo contesto consente di meglio apprezzare alcuni dettagli che esecuzioni più grandiose lasciano giocoforza in secondo piano. Ne risente però la dimensione epica dell’opera: il maestoso finale, per esempio, è un po’ sotto tono, al pari del coro che chiude il secondo atto, che si sarebbe voluto più incisivo. Difetti veniali di un’esecuzione nel complesso eccellente cui hanno contribuito in maniera rilevante gli ottimi complessi del Teatro Comunale di Bologna.  
Il ruolo del titolo  non presenta ostacoli vocali problematici e si gioca essenzialmente sul declamato e sull’eloquenza del fraseggio. Nicola Alaimo, pur sostanzialmente in regola sul piano tecnico,  incarna un Guillaume piuttosto pallido e monocorde, tutt’altro che carismatico. Il ruolo di Arnold mal si sposa con le caratteristiche vocali di Juan Diego Florez; questione di peso specifico, essenzialmente. Pur tuttavia, da quello straordinario interprete che è, il tenore peruviano riesce a domare le asperità vocali con sufficiente disinvoltura e a disegnare un personaggio credibile. Memorabile nel duetto con Mathilde del secondo atto, Florez arriva al termine con una certa fatica: nella grande scena che apre il quarto atto, ad un Asile Héréditaire ben cantato segue una cabaletta dipanata non senza qualche tensione. Il timbro penetrante di Marina Rebeka può a tratti risultare non particolarmente gradevole, ma la sua è un’eccellente Mathilde, che domina con sufficiente disinvoltura anche la terribile aria del terzo atto.  Tra le seconde parti (si fa per dire: tutte presentano difficoltà tali da poterle tranquillamente eleggere al rango di ruoli principali) si segnala l’Hedwige di Veronica Simeoni, una delle giovani voci più interessanti in assoluto dell’attuale panorama. Molto bene anche il Jemmy di Amanda Forsythe. Nei ruoli maschili si distinguono, anche sul piano scenico, Luca Tittoto (Gesler) e Simone Alberghini (Melcthal). Meno soddisfacente Simon Orfila (Walter) e stranamente opaco Celso Albelo nel ruolo del Pescatore. 
L’immagine che accoglie il pubblico mentre affluisce in sala prima dell’inizio è quella di una figura rappresentante un grande pugno chiuso bianco su uno sfondo rosso. Secondo Graham Vick, il Tell è storia di reazione e di rivoluzione, di violenza e di oppressione. È anche la lotta di un popolo per la difesa della propria terra (intesa come luogo di appartenenza) e delle generazioni future. La vicenda è spostata alla fine del XIX secolo: i governatori austriaci appartengono alla dinastia asburgica e sono costantemente impegnati a “celebrare” le loro gesta, tramandandole alla posterità con l’aiuto della telecamera. La loro dittatura è aspra, umiliante e senza pietà; ciò risulta particolarmente evidente nelle coreografie delle danze (sia quelle del primo atto che quelle del terzo), che rappresentano senza dubbio uno degli elementi più interessanti della messa in scena. Tra le altre immagini degne di nota, segnaliamo la grande scalinata rossa che scende dall’alto durante il sublime finale. Meno riuscito il secondo atto, caratterizzato da una selva di cavalli finti che vengono poi trasformati in barricate. Nel complesso una regia di sicuro interesse, che offre una chiave di lettura plausibile e facilmente leggibile; qualche momento meno riuscito non ne inficia in maniera determinante l’esito.