Teatro

Mariano Rigillo, il suo primo Pulcinella nel nome della classe e dell' ironia

Mariano Rigillo, il suo primo Pulcinella nel nome della classe e dell' ironia

Sono passati quasi due mesi dal nostro incontro precedente, ed allora Mariano Rigillo, in quei giorni impegnato al Positano Teatro Festival con il prologo di “Ferito a Morte”, ci aveva raccontato dell’emozione ed anche un po’ del timore di affrontare, per la prima vera volta in uno spettacolo teatrale, la maschera di Pulcinella, in “’O Paparascianno” di Antonio Petito, diretto da Laura Angiulli per il Napoli Teatro Festival, e, sempre in quell’’occasione, ci aveva raccontato del suo primo incontro da spettatore adolescente con quello che fu il più grande interprete di Pulcinella nella metà del secolo scorso,  Salvatore De Muto, e di come fosse rimasto sorpreso nel vederlo, subito dopo la rappresentazione, fuori scena, in atteggiamenti da anziano, così diversi da quelli scattanti dello zanni napoletano.
Un ricordo però positivo, non deludente - ci dice ora l’attore - poichè mi colpì molto come un uomo, che nella vita reale era evidentemente  non giovanissimo, fosse sulla scena invece così agile da sembrare un ragazzo. È quello un momento molto centrale nei miei ricordi giovanili, molto importante, soprattutto oggi, dopo tanti anni, perché mi aiuta a capire come possa essere maturata in me questa decisione caparbia, diciamo così, di fare teatro, perché evidentemente, è come se lentamente mi si fosse innescato un virus. Il caso vuole che adesso mi si dia quest’opportunità  di essere Pulcinella proprio all’età che più o meno aveva allora De Muto. Forse sono un po’ più vitale, - aggiunge sorridendo non senza un garbato compiacimento - ma - conclude ironicamente - bisognerà vedere dopo lo recita in che stato sarò

Ora che lo spettacolo è praticamente pronto per la scena, quali sono i suoi stati d’animo?
Credo che per un napoletano interpretare Pulcinella sia semplicemente dare corpo e forma a qualcosa che abbiamo dentro di noi, in maniera ludica, rivoluzionaria e colta.

Un po’ come lo è Masaniello, una dei più bei personaggi da lei interpretati
”Certo, anche perché il mio Masaniello, come ho già avuto modo di dire nella precedente intervista, è molto ispirato alla descrizione fatta da Antonio Ghirelli , con la sua grande ironia, nella sua “Storia di Napoli”: un Masaniello molto pulcinellesco, molto vitale, sfottente, ardito”

È riuscito a trasferire qualcosa di quel Masaniello nel suo Pulcinella?
I miei tentativi sono quelli, anche se l’argomento dello spettacolo non lo permette, ma ho cercato di trasferirli qualcosa nei gesti e nel carattere del personaggio. In Masaniello si scherzava in maniera cinica su argomenti seri come la rivoluzione, mentre “’O Paparascianno” è una vera e propria farsa, molto corale, dove Pulcinella ha in mano la soluzione dell’intrigo, e dove è tutto più affidato alla complicità tra attore e spettatore”

Come si è trovato in questo contesto farsesco, con una comicità fatta di situazione, lei che è comunque avvezzo ad un teatro in cui i personaggi hanno una grande profondità?
Io mi sono trovato molto bene, perché, ripeto, credo che sia nel mio DNA di napoletano questo personaggio, ed è un po’ avvenuta la stessa cosa che  avvenne quando anni fa, grazie a Peppino Patroni Griffi, compresi Raffaele Viviani. È chiaro che, per quel riguarda il mio essere attore, non potevo leggere una farsa e pensare di interpretarla in maniera, diciamo, classica, intendendo per classica una farsa sboccata, nella quale si schiacciasse sul pedale del facile divertimento, anche un po’ spinto. È chiaro che questo non avrei potuto farlo, per una mia formazione attoriale e culturale. Il vero problema che ho posto a me stesso, alla regista ed ai miei compagni di scena, era quello di realizzare un’operazione colta sulla farsa, un’operazione che prevedesse, utilizzando un termine abusato ma efficace a renderne l’dea, una stilizzazione, facendo intendere tutto ciò che la farsa può essere, ma che nel nostro caso non è, raccontandolo senza rappresentarlo. È questo su cui ho lavorato anche per il mio Pulcinella, dove le scurrilità, diciamo così, che molto facilmente possono rappresentare il rifugio del personaggio, sicuramente non ci sono, ma a volte vengono evocate da per far capire che si potrebbe andare in quella direzione, ma noi ci fermiamo molto prima.

Accanto a lei, in scena, c’è anche la sua compagna, Anna Teresa Rossini, un’attrice ed una donna raffinata, marchigiana, ancora più lontana da quella napoletanità popolare di cui si parlava
Si, tra parentesi in un ruolo molto particolare, la moglie di Paparascianno che, creduta morta, torna a risolvere l’intrigo che il marito aveva tramato per sposare una giovane. Un personaggio molto insolito per lei che, oltretutto, notoriamente è una bella donna, questo carattere un po’ estremo, molto spiritoso, particolare, molto lavorato sul linguaggio: essendo questa donna vissuta per molto tempo a Messina, e per questo creduta morta, quando torna a Napoli parlerà una lingua mista, tra napoletano e siciliano, non particolarmente riconducibile ad una zona particolare, il che aiuta, per un verso, egoisticamente l’attrice, e per l’altro verso l’aiuta anche nella sua creatività espressiva.

Chi sono gli altri suoi compagni di scena?
Ho ritrovato con piacere un attore meraviglioso come Tonino Taiuti, che ho avuto come Sancho nel mio Don Chisciotte. Poi c’è un altro bravissimo attore come Marcello Romolo che interpreta molto bene un ruolo particolare. Devo dire che è una compagnia di ottimo livello, per questo mi fa piacere citare tutti i miei compagni: Agostino Chiummariello, Michele Danubio, Alessandra D’Elia, Angela De Matteo, Francesca Florio e Toni Fornaro. Con tutti loro e con la regista, per fortuna, dopo qualche iniziale scambio di vedute, abbiamo condiviso il mio modo di intendere lo spettacolo, perché è naturale che se io partecipo ad uno spettacolo in cui è prevista una nuova proposta del mio essere attore, come in questo caso in cui debutto come Pulcinella, io devo condividerlo in tutto il suo contesto registico-recitativo.

Ha recitato in tantissimi ruoli, testi di autori classici e contemporanei, ma c’è un personaggio o un autore che non ha ancora interpretato e che vorrebbe portare in scena?
Come autore mi viene in mente Ibsen, un grande che ora però è un po’ dimenticato, ma che ritengo lo Shakespeare del nord Europa. Poi certo un Re Lear, se mi venisse proposto, lo farei subito, ma più che questo c’è il rimpianto di personaggi che non ho fatto a suo tempo, per il timore di apparire un po’ frettolosamente presuntuoso. Per esempio sono proprio rammaricato di non aver mai interpretato Amleto. Mi ricordo che nel 1952, da ragazzo, essendo piuttosto portato nel disegno, ricopiai dalla copertina del rotocalco “Il Tempo” la foto di Gassman nelle vesti di Amleto, tanto che mi colpì. Ho ammirato molto, infatti,  lo spettacolo di Roberto Herlitzka, “Ex Amleto”, che si profonda su di una bellissima idea, un attore che non ha fatto Amleto, e lo ripropone in un momento onirico di ricordi.
Le piacerebbe che lo interpretasse suo figlio Ruben?
Certo, mi piacerebbe che interpretasse questo e tanti altri ruoli

In quel caso lei interpreterebbe Claudio?
In quel caso si -ride- Ma ancor di più ora mi piacerebbe poter condurre un laboratorio serio con un gruppo di giovani su questo capolavoro.

Ritornando a “’O Paparascianno”, cosa vorrebbe che il pubblico dicesse uscendo dal teatro?
Naturalmente, dal punto di vista personale, e molto vanesio, mi piacerebbe che si dicesse “Oh guarda un po’ che bella sorpresa!”, perché a me piace l’attore metamorfico, che non propone sempre la stessa immagine di se stesso, che non si mette davanti al personaggio, ma che usa il personaggio per mascherarsi e per dire cose di se che non direbbe. Dopotutto uno fa l’attore per questo: per essere libero di manifestarsi, avendo magari pudore  farlo nella vita di tutti i giorni. La maschera ti permette di essere tutto, poiché ti da l’alibi di non essere te stesso, mentre invece lo sei nella maniera più totale