Il Mefistofele di Arrigo Boito è un’opera di difficile esecuzione e costituisce un unicum non omologabile nel panorama melodrammatico italiano del secondo ottocento. Arrigo Boigo, letterato e musicista, colto e progressista, perseguiva un ideale di rinnovamento dell’opera italiana per propugnare, oltre a un maggior impegno ideologico, “un'attuazione del più vasto sviluppo tonale e ritmico possibile”. Il Mefistofele, ricavato da entrambe le parti del poema goethiano, dopo la disastrosa prima scaligera del 1866 fu sottoposto a una sostanziale revisione (e riduzione) per meglio compiacere il gusto del tempo acquisendo maggiore cantabilità. Rimane tuttavia un’opera composita ed eclettica e proprio in questo risiede il suo fascino, dove magniloquenza e ricerca dell’effetto convivono accanto ad una scrittura musicale audace e innovativa.
Nel trattare l’intero ciclo goethiano l’opera ha inevitabilmente una natura episodica, caratteristica che Louis Grinda, regista della produzione ora in scena a Monte-Carlo, sottolinea procedendo per immagini, privilegiando l’illustrazione del racconto piuttosto che l’approfondimento psicologico.
Il prologo in cielo è accompagnato da proiezioni di nuvole in movimento sul fondo e sulle quinte della scena che scorrono in sovrimpressione al coro monumentale di angeli–pierrots dai volti e vestiti completamente bianchi, che emergono dall’oscurità schierati su alte gradinate in un perfetto amalgama sonoro e visivo.
Oltre alle scene di Rudy Sabounghi e ai fantasiosi costumi di Buki Shiff, va menzionato il light design di Laurent Castaingt, particolarmente efficace nel definire zone di luce e ombra e mettere in rilievo singoli e masse. Una luce rossa illumina l’entrata in scena di Mefistofele, autentico principe delle tenebre dal ciglio luciferino e cappotto di pelle nera, accompagnato da un seguito di figure femminili metà bianche e metà nere che si confondono con il nero dello sfondo in un eterno dualismo fra bene e male.
La fantasmagoria scenica creata dal regista è sotto il segno di un eclettismo esasperato in bilico fra sogno e gioco, come la scena della domenica di Pasqua, ferie carnevalesca di felliniana memoria con la folla variopinta, i mimi sui trampoli o sui pattini che rendono i peccati capitali uno spettacolo circense colorato e fantasioso, un po’ kitsch, d’accordo, ma sempre in sintonia con la musica.
Di forte impatto il sabba infernale che vede una foresta stilizzata di tronchi neri su fondo rosso con fuochi che si accendono nell’aria come per magia e un Mefistofele irrefrenabile che “suona” con l’archetto del violino il polso di Faust, come fosse una lama con cui tagliare le vene.
Nell’opera viene dato ampio spazio al sabba classico e al personaggio di Elena, che qui vediamo apparire su di una gondola, avvolta in un peplo dorato fra nuvole di fumo con una acropoli sullo sfondo, immagine statica di bellezza neoclassica che poi s’incrina acquisendo tinte cupe e romantiche con l’apparizione di ali bruciate che scendono dal cielo e che alludono ad Euforione, nato dall’unione sensuale fra Elena e Faust e morto giovinetto.
Nell’epilogo, a sancire la salvezza dell’anima di Faust e ribadire la circolarità tematica e musicale dell’opera, riappaiono le falangi celesti e piovono petali sulla sala mentre nuvole di fumo alzano dal palcoscenico.
Con il debutto in Mefistofele Erwin Schrott aggiunge un importante tassello alla sua galleria di diavoli, dopo aver affrontato quelli di Berlioz e Gounod. Affascinante come un angelo caduto, dal gioco scenico sempre naturale e disinvolto, emana una sulfurea ironia che avvince l’audience dall’inizio alla fine. Un basso-baritono, anziché un basso autentico come previsto dalla partitura, ma dal timbro pastoso e fraseggio insinuante adatti a tratteggiare il mercuriale personaggio. Irriverente e leggero nel couplet del fischio, di forte impatto nella ballata del sabba infernale.
La Margherita di Oksana Dyka, oltre a una forte presenza scenica, sfoggia voce solida ed importante. Il ruolo richiede un canto rotondo e nel corso della serata l’emissione si fa sempre più morbida, come nella scena del carcere dove convince appieno per il giusto mix di tenerezza e drammaticità.
Sul Faust di Fabio Armiliato andrebbe sospeso il giudizio in quanto reduce da un’indisposizione a cui sono di certo imputabili i disagi d’intonazione nell’impegnativa “ Dai campi dai prati “.
Meglio nel duetto con Margherita dove ritroviamo la consueta capacità di accento e nel dolente “Giunto nel passo estremo”.
Bene l’Elena di Milena Gradinaru, dalla voce piena e ricca di sensuale languore. Christine Solhosse interpreta Marta e Pantalis ,conclude adeguatamente il cast Maurizio Pace nel duplice ruolo di Wagner e Nerone.
Un plauso al direttore Gianluigi Gelmetti che stempera l’enfasi declamatoria boitiana, minimizza il fasto celebrativo “pompier” e iperbolico rendendo la partitura godibile per un orecchio moderno.
La sua lettura sensibile mette in evidenza l’architettura musicale e gli ampi squarci corali e sinfonici, ma senza mai perdere in lirismo, con attenzione alle nuances e a mantenere in equilibrio i diversi piani sonori.
Ottima la prova dell’immensa compagine corale preparata da Stefano Visconti, composta dal coro dell’Opera di Nizza, quello dell’Opera di Monte-Carlo e i bambini della Corale dell’Accademia della Musica della Fondazione Ranieri III.
Meritati applausi per tutti, con ovazioni a protagonista, coro e orchestra.
L’impegnativa opera è stata scelta come titolo inaugurale della stagione di Monte-Carlo nel novembre 2011 e l’ultima recita è stata dedicata al Principe Alberto II nell’ambito della Festa Nazionale Monegasca in un’attesa serata di gala.