Fra le opere ceche, Rusalka, insieme alla “Sposa Venduta” di Smetana, è quella più conosciuta e amata per un lirismo diffuso e un tessuto sinfonico importante in cui si dipana una storia sentimentale simbolica che si presta a svariate interpretazioni: dalla favolaalla riflessione sul diverso alla contrapposizione natura / cultura fino alla impossibilità di amare. L’opera è sempre più presente sulle principali scene internazionali ed entra ora in repertorio all’Opéra di Montecarlo in una nuova coproduzione con l’Opera di Norimberga, nella suggestiva e “intima” cornice della Salle Garnier, particolarmente adatta a generare nello spettatore uno stato d’animo lirico e raccolto.
Per quanto alcune scelte registiche non siano del tutto comprensibili e condivisibili, lo spettacolo concepito dal regista svizzero Dieter Kaegi funziona perché nella fiaba anche l’incongruo ha diritto di esistere e soprattutto non viene meno la poesia di fondo che è la cifra di Rusalka. Il regista inserisce una sorta di cornice dove due giovani innamorati interpretati da due ballerini arrivano su di una moto in riva a uno stagno, si spogliano e si tuffano subito inghiottiti da acque mortali. Riappaiono poi per allietare gli ospiti della festa a passi di danza e per scattarsi alla fine foto ricordo mentre in primo piano si consuma la tragedia di Rusalka. Aver introdotto un livello metanarrativo, peraltro accentuato dal fatto che guardiacaccia e sguattero non sono altro che maestranze del teatro, sottolinea l’aspetto di finzione del plot principale e, se pur la scelta registica distolga in parte l’attenzione dal momento clou (la morte del Principe fra le braccia di Rusalka), in definitiva funziona perché rende la tragedia di Rusalka ancora più patetica in quanto viene negata l’empatia e compassione da parte del pubblico.
Fin dalla prima immagine è evidente che si tratta di una storia senza speranza e che lo stato di natura delle Ninfe non ha più ragione di esistere in una realtà decisamente antropizzata. Per Dieter Kaegi la natura, così presente nel testo e nella musica di Dvorak, è un lontano miraggio e non a caso è affidato alle proiezioni video di Boris Brinkmann il compito di suggerire gli elementi naturali: le brume del bosco, le onde delle acque, le fiamme infernali in un grande schermo circolare sulla parete di fondo.
Apparentemente l’ambientazione (scena e costumi di Francis O’Connor) è conforme alla tradizione: uno stagno pieno d’acqua al centro della scena dove sguazza l’Ondino dipinto di blu come un Nettuno da cartoon da cui emerge Rusalka portata al cielo su di un tralcio liberty per invocare la luna (una palla di plastica).
Ma c’è qualcosa che stride, fatichiamo a stabilire dei nessi fra le immagini e la favola nota e “sentiamo” che Rusalka (e per estensione le Ninfe) è destinata alla catastrofe. Giganteschi tralicci di legno anziché alberi frondosi rendono lo stagno simile a una pozzanghera di periferia in cui l’Ondino è condannato a un eterno sguazzare fra i rifiuti: la carcassa della moto finita nel lago, il packet lunch gettato con nonchalance fra le acque dal guardiacaccia–attrezzista. Lungo le rive dello stagno poi trovano rifugio drogati e barboni e le Ninfe sono piccoli fantocci di stracci ricoperti di muschio mossi da burattinai con le voci fuoricampo affidate a una triade di figlie del lago (variazione sul tema delle Rheintöchter).
Un parallelepipedo rivestito di specchio dalle pareti inclinate (parallelogramma efficace e straniante) ricrea l’interno del castello del Principe con gli invitati dai colorati costumi rococò, parrucche e binocoli da teatro che scrutano in una pantomima grottesca la povera Rusalka: un pesce fuor d’acqua, che sbatte da uno specchio all’altro senza scampo.
La produzione ben coglie lo stato d’inadeguatezza e diversità di Rusalka sia nei confronti delle Ninfe che degli umani. La felicità dura solo un istante, ovvero quando la ninfa riesce ad ergersi in piedi, ma subito dopo, nel vorticoso correre in cerchio lungo lo stagno incontro a un sogno d’amore, presentiamo il fallimento. Nelle movenze da creatura lunare e impacciata è percettibile l’ incapacità di relazione con gli umani, vorrebbe tanto amare ma ne è incapace e ne è consapevole e questa sua lucidità rende la figura ancora più tragica: non sono il Principe incostante o una civettuola Principessa il problema.
Avevamo già apprezzato Barbara Haveman a Berlino nel Falstaff e anche in questa occasione convince come Rusalka per doti sceniche e intensità interpretativa. Se pur la voce non sia particolarmente sontuosa, viene piegata con grande musicalità ai fini espressivi e le doti di fraseggio rendono il personaggio particolarmente malinconico e perdente in linea con il concetto voluto dalla regia. Straordinaria la Jezibaba di Eva Podles, che conquista il pubblico per la particolarissima voce da contralto puro dove potenza e colore brunito contribuiscono con efficacia al ritratto di una strega più inquietante di un rettile e, oltre ai fuochi di artificio vocali (notevoli anche gli acuti), se ne apprezza vitalità ed arguzia e un gioco scenico da attrice consumata che rende la strega da macchietta a protagonista. Ci è piaciuto l’Ondino di Alexei Tikhomirov per la voce rotonda e possente il cui iterato grido di sventura tuona particolarmente minaccioso e anche per aver fatto scaturire con i giusti accenti tutta l’umanità (e la caratura) di un Wotan slavo costretto in una pozza d’acqua. Maxim Axenov ha le physique du role del Principe e se ne apprezzano le intenzioni stilistiche e il canto curato, ma qualche cautela nei momenti più spinti limita la completa definizione del personaggio. Tatiana Pavloskaia ha giusta allure per la Principessa straniera ma vocalmente delude. Una piacevole scoperta il Guardacaccia di Valdis Jansons dalla voce solida e brunita, bene anche lo sguattero di Julie Robard Gendre. Le tre ninfe sono interpretate in ordine da Daphne Touchais, Marie Kalinine e Mairam Sokolova.Vincenzo Di Nocera dà voce a un cacciatore.
Uno dei punti di forza dell’allestimento è la direzione di Lauwrence Foster che ricrea con una straordinaria idiomaticità la giusta atmosfera dove la lancinante dolcezza propria della musica slava s’innesta in un tessuto drammatico contrastato e denso di chiaroscuri. Una direzione equilibrata che accompagna con naturalezza le diversità di espressione insite nell’opera favorendo lo sgorgare del canto. Un plauso all’orchestra per aver saputo rispondere con un suono ricco di armonici, particolarmente morbido e sfumato. Corretta la prova del coro diretto da Stefano Visconti.
Ottima accoglienza da parte di un pubblico numeroso composto in buona parte da giovanissimi educati e attenti.