Teatro

Onegin: balletto a Venezia

Onegin: balletto a Venezia

E’ risaputo  il giudizio di Fëdor Dostoevskij secondo il quale “Evgenij Onegin”, il celebre romanzo in versi di Aleksandr Puškin,  in realtà avrebbe dovuto chiamarsi “Tat’jana”: perché è proprio lei, la trepida adolescente di campagna che s’innamora del vacuo dandy del titolo, destinata a divenire poi una composta signora dell’alta società pietroburghese, la grande protagonista di questo caposaldo della letteratura russa. Era evidentemente dello stesso parere anche Čajkovskij quando intese dedicarle le pagine più intense dell’opera omonima, a sua volta pietra miliare del melodramma russo - e non solo, ça va sans dire. La forza del testo di Puškin sta tutta nella potente  rappresentazione della società russa del primo Ottocento, nello specchio dell’anima e dell’indole della sua composita gente: profonda raffigurazione poetica che ruota intorno ai rapporti tra i differenti caratteri dei giovani Evgenij, Lenskij, Tat’jana  e Ol’ga, ed agli ambienti che li circondano. Un primo e ben riuscito tentativo di trasporre in forma coreografica tanta dovizia risale al 1965, con l’intervento di John Cranko che – condensandola quanto più possibile e salvandone i tratti essenziali - creò per l’inglese Royal Ballett un “Onegin” su musiche di Čajkovskij; non però tratte dall’opera, bensì quasi tutte contenute nella raccolta pianistica “Le stagioni” op. 37 ed adattate allo scopo da Kurt-Heinz Stoleze.
Nel 2009 l’idea di presentare un secondo, nuovo “Onegin” è venuta a Boris Eifman, passionale ‘enfant terrible’ della danza russa, che con gli spettacoli della propria compagnia – fondata nell’ormai lontano 1977, ed attualmente formata da una cinquantina di ballerini – ha sempre inteso portare avanti nuovi linguaggi coreografici, svincolandosi dalle rigide tradizioni  accademiche di una scuola e di una tradizione centenaria; e riuscendo solo a prezzo di grandi sforzi – e grazie soprattutto ad una serie di creazioni assolutamente memorabili, apprezzatissime all’estero - ad essere accettato dall’establishment culturale russo. E’ curioso, anzi, che un artista come lui, deciso ad andare sempre controcorrente mettendo il pubblico alla prova con spericolate sperimentazioni e ad audaci reinterpretazioni di titoli classici («creare per significa vita e libertà», il suo motto), sia oggi considerato una delle colonne portanti del panorama ballettistico del suo paese. Al punto da veder patrocinata dal Comune di San Pietroburgo – la città dove ha sede la sua compagnia – un’Accademia di danza che porta il suo nome.
A distanza di quasi mezzo secolo, seguendo anche lui la traccia dei versi di Puškin, ma procedendo diversamente da Cranko che utilizzava solo musiche ottocentesche, nel suo spettacolo Eifman inserisce anche quattro composizioni contemporanee del noto chitarrista Aleksandr Sitkoveckij (fondatore degli Autograph, il primo gruppo di rock progressivo sovietico, ben conosciuto anche fuori di Russia), nonché ottimo solista/compositore  in proprio. L’alternanza di due generi musicali così opposti, dopo lo sconcerto iniziale pare funzionare però egregiamente: anche perché i fascinosi brani vocali/strumentali di Sitkoveckij (“Double Vision”, “Satan’s Dance”, “Empty Arena”, “Camels”, scritti tra il 1991 ed il 1999) permettono di esibire il cotê più moderno del pensiero di Eifman con sconfinamenti anche in evocazioni da ‘street dance’, mentre le più numerose musiche di Čajkovskij – proposte in originale od in adattamenti di Michail Rachlevskij e Leonid Eremin – sostengono una serie di coreografie più ‘classiche’. Termine forse non grato ad Eifman, ma qui pertinente ad un linguaggio moderno, ma ormai non più così rivoluzionario come agli esordi, seguendo il sentiero tracciato dall’applauditissimo “Anna Karenina” – altro accostamento alla grande letteratura della sua terra – presentata qualche anno fa nella precedente tournée europea.
Nel suo “Onegin” gli spettatori si trovano subito proiettati in pieno Novecento, più precisamente nella Russia della ‘perestroika’ e della ‘glasnost’ – di qui anche la scelta delle musiche di Sitkoveckij, risalenti proprio a quegli anni così sconvolgenti – mentre la riflessione di sfondo sembra quella che il crollo della dittatura comunista e la libertà ritrovata, epocali ed immani stravolgimenti politici e sociali, hanno portato a perdere il senso dell’etica e della morale, due valori sostituiti da un culto del potere e della ricchezza assurto a norma comune. Gremin è un generale cieco ma elegante e potente, un moderno boss; Onegin e Lenskij sono due ragazzacci scapestrati e superficiali, che si sfidano a coltello in una rissa da discoteca; Tat’jana una ragazza disinvolta e facile, mentre Ol’ga pare ancor più sfrenata nel coltivare i suoi flirts. Nel primo atto, scene di massa con zombies in stivali neri mentre su uno schermo circolare in alto si vedono scene della caduta del regime sovietico; festaioli ballerini impegnati in acrobatiche esibizioni di rock & roll cedono il passo ad un ironico quadro di contadinelle d’antan che passano il tempo a scacciar mosche; in sogno Tat’jana si immagina sedotta da un Onegin vestito di rosso e decisamente sexy, assistito da creature infernali nel baluginare di erotici e sinistri luccichii; una scena di ballo in discoteca, durante la quale i due amici finiscono per litigare a causa di Ol’ga, finisce male: escono di tasca i coltelli, sino a che Lenskij stramazza a terra ucciso dall’amico.
Il secondo atto inizia con quest’ultimo che fugge dalle luci di un elicottero della polizia che lo sta braccando; altre scene di grande impatto sullo spettatore sono quando Tat’jana incontra in un night-club un sconosciuto,  un cieco ma ricco ed elegante militare, del quale diventerà la moglie; quando Onegin, torturato dal rimorso e dalle visioni del fantasma dell’amico che ha ucciso, vaga senza meta; quando reincontra Tat’jan, divenuta una sofisticata dama di città, in un ritrovo elegante; ma essendo troppo insistente nel suo corteggiamento, viene tolto di mezzo dal marito. Solo un sogno? Forse, perché alla fine lo ritroviamo solo, nel suo studio a scrivere una lettera – questo romanzo è fatto tutto di missive che vanno e vengono - mentre dall’altro piovono altre lettere senza risposta: scena estremamente suggestiva, .
Nel complesso, il lavoro di Boris Eifman si mostra strutturato su scene veloci e con una scansione serrata, sempre avvincente e drammatico, e tiene viva l’attenzione del pubblico; ariosamente acrobatico, infila una serie coreografie da antologia, avvalendosi della bravura di un corpo di ballo superlativo nei momenti d’insieme, segno di una preparazione e di un affiatamento ammirevoli; e nel quale le ardue prime parti sono affrontate di volta in volta da più solisti di pari valore.  Nello spettacolo da noi visto, Onegin è stato danzato da Oleg Gabišev, un vero prodigio di magnetismo, prestanza ed agilità; Tat’jana dalla flessuosa ed elegante Ljiubov’ Andreeva; Lenskij dal bravissimo Dmitrij Fišer, Olga da Ekaterina Žigalova, il generale dallo statuario Oleg Markov.
Scene dal sapore moderno di Zinovij Margolin evocavano moderne ingegnerie; i costumi molto belli ed eleganti, erano di Olga Šaišmelašvili e Pëtr Okunev, le luci taglienti di Gleb Fil’štinskij e dello stesso Eifaman; le video proiezioni si dovevano a Vladimir Bystrov.
Lo spettacolo, portato in tournée europea – ma a Londra ed altrove aveva già girato nel 2012 - era presentato alla Fenice in prima nazionale. Grande successo di pubblico, cinque repliche tutte esaurite.