Teatro

PARIGI, DON CARLO

PARIGI, DON CARLO

Parigi, Opéra Bastille, “Don Carlo” di Giuseppe Verdi L’OPPRESSIONE DELLA CROCE Verdi compose Don Carlo dietro incarico dell’Opéra di Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1867, ma effettuò poi numerose, nonché travagliate, rielaborazioni e dell’opera circolano, oltre all’originale su testo francese in cinque atti, un’edizione italiana in quattro atti e una in cinque che risulta essere quella più compiuta, in quanto rispetta importanti modifiche drammatiche e ripristina l’atto di Fontainebleau fondamentale per la vicenda. All’Opéra di Parigi, contrariamente a quanto si possa supporre, è in repertorio la versione italiana in quattro atti, ora riproposta nell’allestimento di Graham Vick del 1998, più volte rappresentato sul palcoscenico parigino. Lo spettacolo, di asciutta sobrietà, moderno e tradizionale al tempo stesso, è adatto a sottolineare l’aspetto di dramma intimista di Don Carlo, tragedia della solitudine e dell’amore impossibile, e funziona particolarmente bene nell’immenso spazio della Bastille per cui fu originariamente concepito. La scena vuota di Tobias Hoheisel dai toni sabbia, ocra e porpora è caratterizzata dalla presenza ossessiva della croce, leitmotiv decorativo e metaforico, che contribuisce a restituire con un semplice segno grafico l’atmosfera opprimente della Controriforma. Con sapiente chiaroscuro, una grande croce è scavata nella parete e nel pavimento, si apre sul soffitto per illuminare la scena o piena di candele accese introduce la sacralità piena di mistero del chiostro di San Giusto. La croce è un ostacolo che marca le distanze fra i personaggi, sempre lontani gli uni dagli altri contrariamente a ogni “convenzione” melodrammatica, e la vastità dello spazio enfatizza la loro solitudine esistenziale: il sentirsi esule di Elisabetta, la consapevolezza di non essere amato del Re, l’idealismo irriducibile di Posa, l’infantilismo irrisolto di Carlo. Pochi, ma efficaci, i segni: pannelli velati decorati da grafiche di paesaggio ritagliano gli ambienti, lasciando intravedere il movimento scenico retrostante ed inserendo la vicenda “privata” in un contesto “storico” con una sorta di rifrazione visiva; una quinta separa fisicamente Filippo dall’Inquisitore come in un confessionale; la lama di luce proiettata sul pavimento è una passatoia regale che deve percorrere Carlo per giungere a Elisabetta e che evidenzia un rapporto amoroso senza sbocco subordinato alle regole dell’etichetta e del decoro. Più convenzionali le scene di massa: l’Auto da Fè si limita alla sua componente coreografica con una sfilata orizzontale di un ampio campionario religioso (il carretto argenteo con la bara di un santo, gli eretici scalzi, la statua della Madonna, preti e chierichetti) davanti a una folla fin troppo gioiosa e colorata. Suggestivo come un dipinto di Velasquez il quadro di apertura del chiostro con le dame della regina dapprima sedute a terra e poi ondeggianti intorno a Eboli nei loro abiti raffinati nelle gradazioni del verde coperte da veli di tulle nero. La ripresa della produzione funziona anche per la compagnia di canto omogenea ed affiatata. Entrambi i personaggi femminili hanno voci importanti: Sondra Radvanovsky è un'Elisabetta senza incertezze, dal raffinato fraseggio. L’interpretazione è stilisticamente sorvegliata e la grande voce (se pur un po’ metallica negli acuti), oltre ad un emozionante “Tu che le vanità”, spicca nei pezzi d’assieme. Luciana D’Intino ripropone un’Eboli “di tradizione”, tutta centrata sulla voce sontuosa di bel colore brunito. Una Eboli autenticamente mezzosopranile, dai gravi particolarmente corposi, acuti sfavillanti e perfette agilità che fanno passare in secondo piano una certa genericità interpretativa e passaggi non sempre a fuoco. Nel ruolo di Filippo, Giacomo Prestia convince per lo spessore vocale da basso autentico, ma manca quella varietà d’accento necessaria per restituire tutte le sfaccettature del controverso personaggio. In “Ella giammai mi amò”, riflessione lenta e amara, quasi parlata, ben coglie crisi e debolezza, ma il ritratto del Re risulta un po’ sbiadito nel confronto con gli altri (soprattutto con Posa), mancando di autorevolezza e regale protervia. Alle prese con un ruolo che ne mette a dura prova i limiti naturali di estensione, Stefano Secco risulta un Don Carlo credibile per intelligenza interpretativa e capacità di accento che evidenziano la nevrosi di Carlo e l’ardente desiderio destinato alla frustrazione. Il Marchese di Posa di Ludovic Tézier (da noi particolarmente apprezzato nel Werther-baritono) ha tutto del Grande di Spagna: nobiltà interpretativa e generosità vocale, perfezione della linea e varietà d’accento. Confidiamo che il baritono francese possa trovare anche in Verdi un repertorio d’elezione. Fra gli altri non convince il Grande Inquisitore di Victor Von Halem dalla voce tremula, bene il frate di Balint Szabo come pure la giovane Elisa Cenni nel ruolo di Tebaldo. Anche la direzione di Carlo Rizzi, equilibrata e al servizio del canto nella migliore tradizione italiana, riflette l’orientamento della nuova direzione dell’Opéra di fare “repertorio di lusso”, dando massimo risalto alle voci. Il direttore privilegia bellezza di suono e cura della concertazione piuttosto che approfondire lo scavo drammatico dello strumentale e talvolta manca di mordente. Ottima la prova del Coro preparato da Patrick Marie Aubert. Il grande successo di pubblico (dieci recite quasi esaurite) lascia sperare che l’opera possa venire riproposta a breve, possibilmente nella versione in cinque atti. Visto a Parigi, Opéra Bastille, il 27/02/10 Ilaria Bellini