Teatro

SALISBURGO, FALSTAFF

SALISBURGO, FALSTAFF

Salisburgo, Haus für Mozart, “Falstaff” di Giuseppe Verdi

IL SOGNO DI UN VECCHIO CANTANTE

Damiano Michieletto è il terzo regista italiano (dopo Giorgio Strehler e Luca Ronconi) nella storia a essere invitato al Festival di Salisburgo ma non basta: il direttore artistico Alexander Pereira lo ha convocato due anni consecutivi, lo scorso per Bohème, il presente per Falstaff.
Come sempre, Michieletto pensa a una nuova collocazione spaziotemporale che sia credibile con il libretto e la musica e al tempo stesso inusuale, ampliando le possibili interpretazioni del plot e moltiplicando i punti di vista sull'opera. In questo caso la vicenda si svolge al giorno d'oggi nella casa di riposo per artisti Giuseppe Verdi di Milano, costruita proprio nel momento in cui il compositore scriveva Falstaff e progettata da Camillo Boito, fratello di Arrigo librettista dell'opera.
Il protagonista è un anziano baritono che si addormenta sul divano del salone e sogna di interpretare ancora una volta Falstaff, materializzando fantasmi per gli altri ruoli, confondendo il personale dell'ospizio con i cantanti e vivendo una sua “personale” burla dove l'unico gabbato resta lui. L'ironia che Verdi manifesta nello spartito in questo caso si ammanta di profonda tristezza per l'ambiente, la vicenda personale dell'uomo, il meccanismo nostalgico dei ricordi e la capacità del passato di dare luce al presente.

Michieletto è davvero bravo a muovere i cantanti come se si fosse nel teatro di prosa e la sua idea scenica travolge lo spettatore con una totale forza accattivante.
Merito anche della splendida scena fissa di Paolo Fantin, un salone neoromantico con due ampie finestre a sinistra e quattro porte-finestre in fondo che danno accesso alla sala da pranzo; dal soffitto pende un lampadario a braccia, sparsi in giro poltrone e un divano, un pianoforte e un giradischi, mobili liberty e moderni attrezzi connessi al luogo (sedie a rotelle, stampelle, girelli). Il salone è angolato in modo da occupare un parallelepipedo sghembo con il lato destro invisibile. Contribuiscono alla bellissima ambientazione i perfetti costumi di Carla Teti: contemporanei per gli ospiti dell'ospizio, fine Ottocento per i protagonisti dell'opera, elisabettiano per Falstaff nel finale. Costumi connotati da intelligenti tocchi di finezza: gli anziani hanno un senso di passata opulenza e di decadenza raffinata e di buon gusto. Completano alla perfezione della mise en scene le luci di Alessandro Carletti, capaci di dare il senso del reale e del surreale, del sogno e del risveglio, giocando sul posizionamento dei fari e sulla crudezza-morbidezza della luce, a tratti impietosa, a tratti ovattata. Per la parte tecnica sono da segnalare anche i video di Rocafilm e la drammaturgia di Christian Arseni che nel programma di sala dialoga con Damiano Michieletto in un confronto interessantissimo su Falstaff in generale e su questa messa in scena in particolare, intrecciando i temi delle Allegre comari di Windsor e di Enrico IV per giustificare il riferimento a un film capolavoro quale lo sconvolgente My own private Idaho (però senza accennare al recente Magnifica presenza le cui atmosfere ci pare aleggino nell'allestimento salisburghese).

Come si diceva, siamo nella casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi a Milano nell'estate 2013; mentre il pubblico entra in sala viene proiettato sul sipario chiuso un video con immagini interne ed esterne: la facciata con macchine, moto e biciclette che sfrecciano e rombano, i cortili interni vuoti, silenziosi, desolati (diurne all'inizio, notturne dopo l'intervallo). Lo spettacolo ha un prologo con arie verdiane suonate al pianoforte, poi il sipario si solleva sul salone con anziani che parlano, giocano a carte, leggono il giornale, fino a quando si aprono le quattro porte sul fondo che danno nella sala mensa ed essi si accomodano a pranzare. Il protagonista resta solo e si addormenta sul divano, iniziando a sognare, le pareti si muovono con effetto onirico come nelle immagini surrealiste di Dali e, dalle finestre e da botole nel pavimento, appaiono i protagonisti tutti dell'opera Falstaff. In questo momento l'opera prende il via e i tre atti si dipanano tra sogno e veglia con grande coerenza e invenzioni ardite ma che calzano a pennello, come il tuffo nel Tamigi risolto con secchiate di coriandoli azzurri scintillanti o il lenzuolo smisurato che copre tutto durante la caccia all'uomo. Michieletto sa piegare la scena con naturalezza alle parole del testo: Pistola brandisce una stampella mentre dice “chiedo di battermi con quest'arma di legno”. Sarebbe stato difficile il “prepariam la scena” delle comari in attesa del panciuto: ecco allora che sedia, liuto, paravento e tavolo vengono genialmente evocati con tocchi di cipria. Un po' più forzata la scena nel bosco, non tanto per l'ambientazione (efficacemente affidata a piante in vaso piazzate dai fantasmi nel salone), quanto per gli snodi drammaturgici che si stemperano e finiscono per essere poco comprensibili. Il funerale in un giorno di pioggia (ma in interno) con la bara col nome “Falstaff” e le secchiate di terra su lui steso sopra il divano aumentano a dismisura la tristezza della scena, dove l'ironia viene superata dal senso del tempo passato, forse invano, lasciando un grande rammarico e un vuoto irrecuperabile.

Si sorride e ci si commuove nel Falstaff di Michieletto. Vecchio John viene cantato con il ritratto di Verdi in mano (il celeberrimo di Boldini della GNAM): magari scontato ma perfetto per il cantante anziano vede Verdi come Tutto. Nel finale davanti al velatino abbassato, tutti i protagonisti sono in proscenio allineati e cantano, mentre in video il protagonista è addormentato sul divano sotto gli occhi degli altri anziani che lo svegliano, riportandolo alla realtà. Ma, più che scherzo o burla, sono malinconia, vecchiaia e morte le vere protagoniste. Infatti una profonda tristezza domina e travolge tutto: la malinconia per il tempo passato che non torna più (le immagini dei successi passati mentre prende applausi per Falstaff), lo struggimento per una solitudine aumentata dalla vita comunitaria nell'ospizio (le foto dei bei tempi lontani della giovinezza e della maturità), la disperazione per i sentimenti che non vengono ricambiati, la terribile certezza che manca poco per la fine. Anche se regna sovrana l'idea del gioco, del travestimento, della burla shakespeariana, tuttavia lo spettatore vive il tempo della recita e  se ne va con una malinconia nell'anima che è il vero risultato della messa in scena.
Il bravo Michieletto inventa espedienti di straordinaria efficacia: Falstaff ancora in grado di corteggiare fa volteggiare quattro giovani infermiere semplicemente roteando una fragola. Oppure (e ancora di più) il duetto Nannetta-Fenton: mentre i due giovani cantano, due anziani innamorati scoprono una farfalla che Nannetta ha posato sul bracciolo di una poltrona, la prendono in mano e la fanno volare via, leggera, fugace e irrecuperabile come l'amore. Ma che a una certa età pare un miracolo.

Zubin Mehta ha gesto incantatorio di grossa presa sull'orchestra; qui preferisce (forse in linea con la linea registica) colori di autunnale tristezza, rinunciano alla brillantezza della storia shakespeariana a discapito della ricchezza della tavolozza musicale che non emerge, anche per molte e ripetute imprecisioni che, fortunatamente, non hanno minato la narrazione teatrale e l'equilibrio tra la messa in scena e la buca.

Tutti i protagonisti si muovono con fluidità come fossero fantasmi, compiono ardite rovesciate sulle poltrone, entrano con salti dalle finestre, escono sprofondando tramite botole sul pavimento, dimostrando atleticità e grandissima capacità attoriale, fondamentali al successo dello spettacolo.
Ambrogio Maestri, anche dopo le recite scaligere, è il Falstaff di questi tempi, maestoso nel fisico e nella voce e in grado di calarsi nei panni del personaggio voluto da Michieletto con totale credibilità. Massimo Cavalletti è Ford e conferma la buona impressione milanese: voce bella e omogenea, fisico piacente e vigoroso; una tornitura più accurata del verso lo porterà a risultati eccellenti. Javier Camarena è Fenton e ha voce squillante, precisa in acuto e giustamente venata di quel sentimentalismo che si addice al ruolo, particolarmente significativo nella scena con la farfalla e i due anziani innamorati di cui si è detto sopra. Fiorenza Cedolins risolve il ruolo di Alice con grande charme e una sorprendente capacità attoriale: per tutte, la scena in cui Falstaff cerca di ghermirla sopra il pianoforte. La Mrs. Quickly di Elisabeth Culman è, seppure poco tonante, giusta e ben amalgamata con le altre, come anche la Meg di Stephanie Houtzeer. Apprezzata la Nannetta di Eleonora Buratto, voce importante e facile all'acuto, presenza scenica accattivante e disinvolta nello streap tease in cui resta in guepiere. Adeguati i comprimari, Gianluca Sorrentino (Bardolfo) e Davide Fersini (Pistola) che usano le poltrone come inginocchiatoio per scusarsi con Falstaff (e al panciuto basta un colpetto di piede per rovesciarli a terra). Con loro Luca Casalin (Dott. Cajus) e il coro ben preparato da Walter Zeh. Essenziali nell'economia dello spettacoli le comparse: gli anziani della casa di riposo perfetti nei movimenti, nelle pose, nell'abbigliamento, nell'atteggiamento, risultato di una meticolosa cura registica.

Teatro gremito, pubblico soddisfatto, moltissimi applausi a scena aperta, un trionfo assoluto per tutti nel finale.
Resta indimenticabile la scena del duetto Nannetta e Fenton, in scena contemporaneamente a due anziani innamorati: l'amore non ha età, la meraviglia della donna anziana che scopre la farfalla e la prende delicatamente in mano è davvero il miracolo dell'amore (mi riferiscono che nella piazza del duomo, in questo momento, durante la proiezione del video è scoppiato un applauso fragoroso).

Visto a Salisburgo, Haus für Mozart, 3 agosto 2013

FRANCESCO RAPACCIONI