Teatro

Tosca a Padova

Tosca a Padova

Come compositore, e quale ideatore di personaggi, ambienti, situazioni, Puccini concede in realtà poco spazio al lavoro dei registi: troppo forte è il suo istinto drammatico, troppo profondo il suo senso teatrale, perché lasci inespressi gesti e sensazioni dei personaggi, o perché tralasci di definire con precisione, anche musicalmente, la descrizione dei luoghi che li circondano. Tanto per fare un esempio, è ben nota meticolosità con cui, alle prese con la partitura di “Tosca”, volle verificare l’intonazione del campanone di San Pietro  - corrispondente, per inciso, presso a poco al mi basso - e la cura con la quale intese restituire – accertandoli di persona - i suoni delle altre campane romane allo scoccare del Mattutino. Tanta fatica solo per inserire quell’effetto al levar di sipario del Terzo Atto: liricissimo momento aurorale che precede il deflagrare dell’epilogo finale.
Aperta in estate con una edizione sotto le stelle de “L’elisir d’amore”, la stagione lirica 2013 del Teatro Verdi di Padova si è chiusa, in questo scorcio d’anno, proprio con la ripresa della “Tosca” in bianco e nero firmata da Hugo De Ana, sempre per il circuito Padova/Rovigo/Bassano,  nella stagione autunnale 2007; un degno prologo alla monumentale versione areniana da lui consegnata a Verona due anni dopo. Un allestimento, quello dell’artista argentino che - fatte le debite proporzioni - curiosamente ricorda lo spettacolo dell’inaugurazione della stagione scaligera 1996-97,  firmato da Luca Ronconi e con le scene di Margherita Palli, sua collaboratrice inseparabile insieme a Vera Marzot. Lì si trovavano elementi scenici realistici e imponenti,  ma tutti frammentari e sbilenchi, come smossi da un terremoto; qui le quinte sono altrettanto grandiose ma integre, sebbene le volte di Sant’Andrea - restando ritte solo incombenti colonne – e gli spalti di Castel Sant’Angelo ci siano offerti di sgauncio, come a dilatare un’instabile spazio barocco che già prelude all’incombente severo neoclassicismo. Molto bello poi anche il disegno dei costumi, tipici di quegli anni turbolenti, come in uno spettacolo di Luchino Visconti.
La bella e solida regia di De Ana – molto attenta alle indicazioni pucciniane - è stata ripresa in questa occasione da Giulio Ciabatti, senza farle perdere nulla della sua carica emotiva e drammatica: sciolto e veloce il primo atto, con un Te Deum intenso ma senza cadere in enfatismi; serrato il dipanarsi del secondo, e ben risolto anche il terzo, con quell’unica pecca di far scappare fuor di scena Flora Tosca - come avendo urgenza d’andar a fare la pipì - anziché farla precipitare dagli spalti, buttando così via un istante di grande teatralità.
Tosca, appunto: che doveva essere Susanna Branchini, sostituita alla fine da Cellia Costea. Bel physique du rôle, senza dubbio, notevole  temperamento, grande presenza in scena, maliosa  e nevrotica sensualità: fin qui le note tutte positive. Ma per il resto le cose andavano così così: pur disponendo di un timbro ben tornito e di notevole spessore di voce, la varietà d’espressione ed i colori messi in campo sono pochi, qualche difficoltà si avvertiva là dove la tessitura pucciniana diventa perfida, e la pronuncia  - ahimé  - appariva alquanto fumosa. Andavano così perse per strada tante occasioni di tornire a dovere la più fascinosa delle eroine pucciniane; va detto però che il momento topico di «Vissi d’arte» era abbastanza ben padroneggiato dal soprano romeno, con sincera immedesimazione ed una maliosa vena melanconica; e che se nei dialoghi a Sant’Andrea correva troppo,  per fortuna nel duettare finale con l’amante (almeno da «Amaro solo per te» al frenetico Finale) ha saputo essere più persuasiva.
Il Cavaradossi di Andeka Gorrotxategui è parso alquanto rozzo e squadrato,  con una varietà di fraseggio modesta, scarsa gamma di tinte ed acuti lanciati nel vuoto; insomma, una figura inespressiva e lasciata a mezzo, malgrado a disposizione ci fossero cospicue munizioni nella giberna. Il che ha invero ha un po’ sorpreso, volendo mettere a confronto questa sua modesta interpretazione  con quelle recentemente valutate a Venezia (leggi: “Madama Butterfly” e “Masnadieri”) apparse ben più stimolanti: altro che pittura di «Recondite armonie di bellezze diverse!»…sul Mario del giovane tenore basco aleggiava una trascuratezza ed un grigiore interpretativo che non ci saremmo aspettati.
Altro discorso con Carlos Almaguer: il bravo baritono argentino, già assai apprezzato nel “Nabucco” patavino dello scorso anno, dipinge un buon ritratto musicale del perfido Scarpia, reso con torva sensualità e grande credibilità scenica, evitando intelligentemente effettacci ed uscite plateali che affliggono certe fastidiose interpretazioni. La voce non è ridondante, ma ben amministrata ed estesa su tutta la gamma; il gradiente dei colori più che bastevole a delineare la velenosità del carattere; un buon Scarpia, insomma, salvo qualche scatto di ferina aggressività che pure a qualcuno può piacere, se si cerca un Barone interiormente turpe e malvagio. Personalmente, opterei per uno Scarpia più mefistofelico ed insinuante, un po’ meno sanguigno di questo; ma il bello di questo affascinante personaggio è proprio di potersi prestarsi a più letture, tutte egualmente plausibili e tutte egualmente gradite.
Nel resto del cast, Paolo Battaglia ha buttato giù un Angelotti alla meno peggio; spigliato il Sagrestano di Domenico Colaiannio; a posto Luca Casalin nei panni di Spoletta, Enrico Rinaldo il quelli di Sciarrone e Victor Garcia Serra in quelli del carceriere. Il pastorello era il piccolo Simone Stocchero. Corretto l’intervento del Coro Lirico Veneto diretto da Dino Zambello.
Fabio Mastrangelo ha diretto la Filarmonia Veneta con mano pesante, una condotta monocorde e monodirezionale, povera di colori. Modesta la varietà dinamica ma, in compenso, troppe sonorità spinte fastidiosamente verso l’alto: di qui percussioni telluriche, ottoni roboanti, una qualche fatica dell’orchestra a seguire il suo passo.