
L'Anna Bolena che va in scena al Teatro La Fenice fu uno dei primi melodrammi rimessi in circolazione dalla Donizetti Renaissance, grazie alla storica performance scaligera Callas/Simionato del 1957 - direttore Gavazzeni, regia di Visconti - ed ai successivi cimenti di alcune star sopranili: Gencer, Sutherland, Caballé, Sills, ne furono memorabili interpreti in teatro e in disco.
Eppure a Venezia mancava nientemeno che dal 1857; e pensare che alla Fenice, nel recente passato, trovarono ospitalità due titoli di minor rilievo quali Marin Faliero (2003) e Pia de' Tolomei (2005). Lavoro d'indiscutibile pregio, primo capitolo della cosiddetta 'Trilogia Tudor' ed antesignana del considerevole numero di tragedie romantiche donizettiane, l'Anna Bolena si può ben dire partitura bifronte, e di cerniera: culmine e riassunto cioè delle precedenti prove giovanili del Bergamasco – dalle quali giungono alcuni autoimprestiti - ed allo stesso tempo avvio della sua piena maturità.

Spettacolo raffinato, regia sonora deludente
Ignaro dello scorrere del tempo, ancor pieno di energie, Pier Luigi Pizzi si prende carico dell'intera messa in scena; solo per le luci, si avvale di Oscar Frosio. Propone costumi molto eleganti, giocati nell'amata triade nero/rosso/grigio, in un'idea astratta dell'epoca Tudor. A racchiudere la vicenda disegna una maestosa struttura lignea, un'aula vuota le cui volte evocano gli edifici inglesi tardogotici; pochi mobili in scena, grandi alti tendaggi a far l'alcova di Anna, un'inferriata sul fondo a suggerire le prigioni.
Consegna un'impronta registica sobria, essenziale, quasi prosciugata, narrativamente pregnante e quanto mai attenta al dettaglio recitativo, focalizzando ogni attenzione sulla psicologia dei personaggi. Una regia livida, come livida è l'opera. Congegna infine minimi intervalli per i cambi scena, a tenere alta la concentrazione. Anche perché qui si esegue l'opera tutta intera, senza tagli, e son due atti da cento e passa minuti.
Sul podio dell'orchestra fenicea torna a distanza di tempo, dopo una Madama Butterfly del 2018, il direttore veneziano Renato Balsadonna. La sua regia sonora è po' squadrata e spigolosa, un po' avara di sfumature; propensa qua e là a dinamiche prorompenti, al clangore di fiati e percussioni, con l'effetto di soverchiare talora le voci. Direzione insomma periclitante nello stile, indecisa tra un Verdi quarantottesco ed un Rossini lancia in resta.

Uno strano cambio di ruolo
Convocare per il ruolo della Seymour – tessitura in verità 'anfibia' in bilico tra due registri – un soprano pur d'eccellenza qual è Carmela Remigio, e non il più consueto mezzosoprano, desta qualche perplessità. Certo, così cantò anche all'Opera di Roma, nel 2019; eppure, noi la ricordiamo più quale eccellente Anna Bolena qualche anno prima a Bergamo. Come sia, la sua Giovanna possiede grande carattere, eloquenza di fraseggio, insomma poggia su una voce dalle risorse importanti impegnata nella casta stilizzazione di un'anima muliebre in tempesta.
Sua rivale è la sventurata regina che Lidia Fridman impersona la prima volta, ampliando man mano il proprio repertorio belcantistico. Ora che la dizione di questa cantante russa di nascita, italiana d'adozione è perfetta, ogni frase assume il giusto peso, ed ogni suo personaggio sbalza ancor meglio sulla scena.
Sempre più tecnicamente a fuoco, impiega la sua incandescente vocalità da soprano drammatico di coloratura spingendosi senza troppa fatica, con staffilate fulminee, nelle acrobazie virtuosistiche d'un ruolo - quello della Bolena - che fu scritto per Giuditta Pasta; mettendo così a frutto un'estensione vocale pregevole, che da gravi prossimi al mezzosopranile sale agile e compatta ad acuti svettanti e sostanziosi.

Rubini, il tenore di Bellini e Donizetti
Anche il ruolo di Riccardo Percy fu pensato per una voce formidabile ed unica, quella di Rubini; di qui l'eterna difficoltà di trovare chi ne regga il peso e l'ardita tessitura. Ci prova Enea Scala, e risolve la questione abbastanza bene: da un lato eseguendolo con accentuata virilità, a definir bene il suo personaggio; dall'altro valorizzandone le potenzialità liriche coll'offrire all'ascolto un timbro chiaro ed accattivante, buona pulizia e snellezza di fraseggio, acuti ben timbrati anche se non superlativi quanto a colore.
Alex Esposito torna ancora una volta sulla figura di Enrico VIII – l'ultima volta fu nel 2023, al Colón di Buenos Aires – a confermare una naturale predisposizione a ruoli 'cattivi'. Anche stavolta il basso-baritono bergamasco dimostra la sua forza attoriale, poiché del volubile Enrico sa restituire tutta la prepotente arroganza regale, mettendo alla sferza la torrenziale emissione, il brunito timbro, la rotondità vocale; insomma, i pregi musicali e la solidità tecnica di un interprete superiore, che non scade mai di qualità.
Manuela Custer delinea con prontezza vocale il paggio Smeton; William Corrò è un ottimo Rochefort; Luigi Morassi un massiccio Harvey. Buona prova del Coro veneziano diretto da Alfonso Caiani.