Teatro

Andrea Cosentino: "l’arte dovrebbe creare un disagio, non autoconsolazione"

Andrea Cosentino
Andrea Cosentino

Intervista ad Andrea Cosentino vincitore del premio Speciale Ubu 2018 con Telemomò, un format che si rinnova e ripropone da quindici anni e non smette di far ridere smontando linguaggi e certezze

Oltre vent’anni di teatro in cui ci sono stati seri discorsi comici, filologica attenzione al linguaggio teatrale, disvelamento costante dei meccanismi del teatro e dialogo con un pubblico protagonista.
Andrea Cosentino ha vinto il premio speciale Ubu “per la sua lunga opera di decostruzione dei linguaggi televisivi attraverso la clownerie, e in particolare per Telemomò, che attraversa i suoi lavori da anni”, e racconta oggi a Teatro.it il suo percorso.

Ti riconosci nella motivazione del premio Ubu?
Sono venticinque anni che realizzo spettacoli. Le prime apparizioni di Telemomò, che più che uno spettacolo vero e proprio è un format che si rinnova continuamente, risalgono a 15 anni fa. Un percorso che, nel tempo, prende corpo in forme diverse ma una delle costanti è in effetti l'intenzione di smontare i linguaggi della rappresentazione, quello televisivo certo, ma anche gli stessi linguaggi codificati della scena e ultimamente il linguaggio fintamente trasparente del web. Un premio non era nelle mie aspettative, anche perché penso che il mio sia un teatro poco categorizzabile: non sono un narratore, non faccio teatro di prosa, utilizzo un meccanismo che è quello della clownerie da teatro. Immagino che avranno pensato “sono vent’anni che fa spettacoli che non sono poi male, non abbiamo le categorie dentro il quale infilarlo, e però forse dovremmo dargli un riconoscimento”. Ed è arrivato infatti un premio speciale, diciamo una specie di riconoscimento forse tardivo ma non ancora postumo alla carriera, della quale clownerie, Telemomò e decostruzione sono diventate le parole chiave. Direi che ci può stare.

Un teatro poco categorizzabile, in che senso?
In qualche modo credo di aver fatto, per scelta o vocazione, un teatro spesso al margine. Sono nato nei centri sociali e nei posti considerati alternativi e “off”, ma non ho mai pensato che l’off fosse un trampolino per andare nell’ ”In”
L’idea del margine l’ho anche rivendicata e teorizzata, e non vuol dire sentirsi messo fuori. Di fatto, con il mio teatro fatto di strumenti scenici poveri, non ho bisogno di niente: ho sempre desiderato poter andare in scena sia al teatro Argentina illuminato da par e riflettori, sia in spazi piccoli, come Casa Teatro di Cava de Tirreni in provincia di Salerno, dove il teatro è un elemento di aggregazione, semplicemente con una lampadina sulla testa. Un altro elemento è la scelta del comico: dimensione non comoda per una cultura come la nostra in cui la comicità è sempre un po’ considerata di serie B.
 


La comicità è effettivamente la strada scelta, ma cosa intende per Clownerie da teatro?
La clownerie da teatro non è necessariamente avere il naso rosso o inciampare sulle bucce di banana: per me significa stare in scena in modo non autorevole, inadatto. Il clown è una figura comica che nasce nel circo equestre per cadere da cavallo. Mutando il contesto, cioè in teatro, il clown sarà qualcuno del tutto inadeguato al palcoscenico su cui agisce. Il mio modo di abitare la scena è qualcosa di sghembo, antifascinatorio, poco convenzionale. Quella cui ho sempre mirato è una presenza assolutamente inaffidabile: il mio personaggio non è qualcuno a cui puoi delegare una risposta o un messaggio.

Conta la forma, il meccanismo e non un contenuto rassicurante?
In tutti i miei spettacoli, di qualunque cosa io parli, innanzitutto cerco di smontare il ruolo di chi è sul palcoscenico e a cui lo spettatore affida risposte o emozioni. E’ un teatro un po’ straniato da cui deriva la comicità, che è il mio strumento base per avere una comunicazione efficace. Da una parte è smontare la rappresentazione televisiva o teatrale, dall’altra è anche smontare la stessa idea di rappresentanza: il narratore è spesso qualcuno che si rivolge a un pubblico di persone che sanno esattamente come la pensa, che lo vanno a vedere e sentire per questo, e da cui vanno a farsi rappresentare. Io non voglio, invece, essere uno che ti dice come la pensi tu, cerco di realizzare un teatro popolare e divertente ma non voglio avere questa funzione consolatoria. Quando ho iniziato ero stato incasellato nella generazione dei narratori, come Ascanio Celestini o già Paolini prima, artisti che peraltro stimo molto, ma non è quello il mio percorso. Per me l’arte dovrebbe creare un disagio, non mettere lo spettatore in una posizione di autoconsolazione.
 


E lo spettatore d’altronde, non resta mai esterno al suo percorso…
I miei spettacoli, quasi tutti, sono un po’ sgangherati: qualcosa è messo lì, appositamente gettato e non finito, e poi improvviso, dialogo con chi c'è e con il mio stato d'animo della giornata. Per me l’improvvisazione è farti assistere al mio processo creativo: il mio essere alla prese con il tentativo di farti vedere cose che abbiano un senso, o meglio ancora cercare di inventare un senso e un linguaggio di fronte a te. Mi piace che lo spettatore si possa inserire negli anfratti di queste imperfezioni e sentire che quello che vede sulla scena un po’ lo creo insieme a lui. E che tutto sia comunque provvisorio e sempre sul rischio di cadere o scoppiare come una bolla di sapone. Si può dire che creo spettacoli, assolutamente non monologhi, pieni di personaggi e volti, aperti soprattutto alla voce virtuale-reale di chi è di fronte a me. E che la cosa più preziosa per me è condividere  questo sentimento ossimorico della potenza e della fragilità di ogni costruzione simbolica.

Il format Telemomò è esilarante, racconta la televisione?
Il fatto che tu possa seguire storie, con protagonista la mia testa imparruccata e i miei pupazzetti dentro il mio finto schermo bucato, dovrebbe farti rendere conto di quanto siamo abituati a quel linguaggio, e costituirne al contempo una presa di coscienza e un piccolo antidoto. In due parole si può dire che in Telemomò, con la povertà dei miei poveri strumenti scenici da teatrino artigianale, in qualche modo mimo la povertà del linguaggio televisivo. Se vuoi questo ha un che di politico.
 


La televisione di cui parla è quella di oggi?
Telemomò è nata anni fa, in piena era berlusconiana, l'urgenza era quella, e in qualche modo ne risente ancora. Ma mi sono sempre sforzato di non fare parodie di programmi e personaggi specifici della televisione, che sarebbe anche facile ma rischia di legittimare pur attraverso la satira il mondo che stai criticando. Piuttosto metto alla berlina format e linguaggi che rimangono nel tempo: la telenovela non è così diversa dalla fiction di oggi. E funziona lo stesso perché la tv non cambia così velocemente come la nostra società. Però i ragazzi e i giovani oggi, come mia figlia che ha tredici anni, seguono piuttosto la rete e i social. Anche se poi vai a scoprire che internet è pieno di frammenti di programmi televisivi. Si delega dunque in qualche modo sempre la televisione ad essere la “piazza centrale” ma, come spettatore più attivo, scegli e ne prendi solo frammenti significativi. O più spesso stupidamente insignificanti.

Il punto è sempre smontare il linguaggio.
Viviamo tutti, sia noi dell’era televisiva che i ragazzi dell’era di internet, in un modo che è fatto di rappresentazioni: magari internet ti dà ancora di più l’illusione che ciò che vedi sia la realtà. Secondo me, però, è vitale prenderne coscienza, e rompere qualunque rappresentazione. Quanto più un linguaggio fa finta di essere la realtà, tanto più è urgente e necessario destrutturarlo, imparare, divertendoti, a smontarlo, a stravolgerlo, decostruirlo e ricostruirlo con pensieri laterali. Per me si può dire che l’arte comincia mettendo in atto il pensiero laterale, lo straniamento, farsi straniero al tuo mondo abituale per vederlo con occhi nuovi.