Teatro

Antonio Zavatteri, un artista a tutto tondo tra teatro, cinema e televisione

Antonio Zavatteri
Antonio Zavatteri

"Io sono un regista abbastanza morbido nel senso che cerco di fare quello che ritengo sia giusto per la mia personalità e per il mio gusto"

Dopo aver interpretato Cyrano sul palcoscenico del Teatro Parioli Peppino De Filippo di Roma, diretto da Carlo Sciaccaluga e  Matteo Alfonso, Antonio Zavatteri sarà dietro le quinte, alla regia di Le prénom, una commedia prodotta dal Teatro Stabile di Genova, di cui adatta per il teatro la traduzione italiana di Fausto Paravidino.

Nasci a Torino ma è Genova la città che ti forma professionalmente. Com’è il tuo rapporto con questa città anche al di là dell’ambito strettamente professionale?
Mi sono trasferito qui nel 1991 in occasione del provino alla scuola del Teatro Stabile di Genova e da allora ho sempre vissuto qua. Ho una vita in questa città, un figlio; il lavoro mi lega fortemente a questa città. Prima di approdare a Genova avevo lavorato a Milano a livello professionale con Piero Mazzarella nella sua compagnia, si trattava di teatro dialettale anche se la mia partecipazione era filodrammatica. A Genova, invece, è cominciato tutto, ho un’affezione grandissima con questa città e anche se per motivi di lavoro viaggio spesso, Genova rimane la mia base; la mia crescita culturale anche da un punto di vista creativo. Qua ho avuto i primi impulsi che poi hanno determinato il mio sviluppo da artigiano, da attore, da artista grazie a personalità come Valerio Binasco, Francesco Rigo, ed altri insegnanti della scuola come Massimo Mesciulan etc. D’altra parte riconosco anche molti limiti in questa città, non tanto dal punto di vista creativo anche perché ci sono tanti gruppi e personalità di rilievo. Forse più da un punto di vista strutturale ma questo non riguarda solo il teatro; penso ad esempio alla stagnazione che caratterizza questa città che potrebbe essere potentissima perché ha delle caratteristiche fisiche e storiche particolarmente produttive e fertili, ma s’impantana continuamente in un provincialismo senza paragoni.

Nel 2002, dopo l’esperienza della Compagnia Progetto URT, fondi insieme ad Alberto Giusta e Paolo Zanchin la Compagnia Gank. Cosa rappresenta per voi questa realtà in una città “piccola” come Genova e quanto è importante avere un gruppo di lavoro compatto e affiatato?
Genova ha la fortuna di avere un’ottima scuola di teatro, con tutti i limiti che ha che sono sotto gli occhi di tutti; ma nonostante i limiti, i risultati parlano con un contino produrre personalità di un certo tipo, in termini di competenza e creatività. Per cui da quel punto lì è stato semplice. Appena diplomati, infatti, abbiamo creato l’URT anche se poi ci sono state delle classiche e tradizionali divergenze che ci hanno fatto separare com’è normale e fisiologico che succeda. Nel 2002 poi abbiamo fondato la Compagnia Gank e abbiamo trovato un equilibrio che chissà potrebbe spezzarsi anche domani, non bisogna mai dare nulla per scontato, ma che per il momento ci permette di lavorare in sintonia. Anche se per certi versi Genova è la palude, è anche vero che non è affatto difficile trovare gente con cui confrontarsi e creare; penso ad esempio ai Gloriababbi, i Nim, a persone come Filippo Dini, Fausto Paravidino che oltretutto ha tradotto il testo che stiamo portando in scena, a Valerio Binasco con la Popular Shakespeare Kompany. D’altro canto si muovono molto di più realtà piccole come  appunto Genova, la Sicilia, la Puglia che non città più grandi come Roma dove da un punto di vista della produzione teatrale non succede nulla o quasi. Il nostro è un gruppo certamente compatto e anche se negli anni non abbiamo lavorato sempre con le stesse persone, tuttavia il gruppo storico è comunque rimasto, soprattutto per l’esigenza di trovare un linguaggio comune. Poi dipende molto dalla drammaturgia che si fa; ad esempio in questi ultimi due anni ho fatto Poker e Le prénom. In questo caso c’erano degli elementi che riguardavano la conoscenza, le aggregazioni che era necessario raccontare con una dinamica strettamente legata alla nostra esperienza e al nostro modo di lavorare.

Nel vostro repertorio, oltre a qualche autore contemporaneo, c’è tanto teatro classico. E’ una scelta dettata solo dai vostri interessi? Ci sono autori contemporanei che vorreste affrontare e se si perché?
Per quanto riguarda le scelte dei testi classici noi come compagnia affianchiamo teatro classico e contemporaneo in pari misura, almeno per quanto riguarda le produzioni, poi è ovvio che come circuitazione riusciamo a girare molto di più col teatro classico. Certamente non possiamo negare che la drammaturgia di teatro classico che abbiamo messo in scena è qualcosa che ci ha entusiasmato fortemente, quindi non rinneghiamo le scelte fatte, ma non possiamo, altresì, negare che queste stesse scelte che facciamo di teatro classico hanno a che vedere anche  con delle motivazioni di distribuzione. Purtroppo, nel nostro caso, se vogliamo girare dobbiamo sottostare a delle condizioni; del resto questo è un problema di cui si parla e di cui ci si lamenta da decenni ma nessuno ha mai fatto nulla, primo fra tutti il Ministero che dovrebbe occuparsi di questi problemi piuttosto che fare delle leggi scellerate che non aiutano il teatro. Non si può, infatti, avere l’utopia di trasformare in stabili, teatri che non lo sono mai stati perché non lo potranno mai essere. Quindi prima di approvare leggi così sciagurate bisognerebbe pensare ai problemi reali del teatro, fra cui  quello degli scambi. Tornando al teatro contemporaneo, se tu proponi un testo che non ha un’attrattiva, che non ha un grande richiamo di pubblico, hai grosse difficoltà a girare nelle sale. Per cui per i testi di drammaturgia contemporanea che proponiamo lottiamo con grande fatica per ricavarci un piccolissimo spazio. Questo determina un grosso problema perché fa diventare la prosa un po’ come se fosse la lirica, per cui se si esce da quei quattro titoli canonici è difficile riempire le sale. Il grande paradosso è che poi sono spesso gli stessi spettatori a lamentarsi della mancanza di novità. Non è facile trovare una soluzione; forse ci vorrebbe un lungo lavoro da parte di amministratori di teatri particolarmente illuminati, che oltre a proporre i classici, riescono ad offrire un repertorio di più ampio respiro. Di amministratori illuminati, del resto, ce ne sono in Italia; penso a Romanetti a Casalmaggiore, o a realtà come Occhiobello etc.

Al Duse sta per andare in scena Le prénom di Mathieu Delaporte e Alexandre De la Patellière, di cui tu curi la regia. Cosa ti ha spinto a scegliere questo testo, che nasce per il teatro, ma che gli stessi autori hanno portato sul grande schermo nel 2012? La pièce, oltretutto, ha ispirato un altro film uscito a gennaio di quest’anno in Italia, con la regia di Francesca Archibugi, dal titolo Il nome del figlio. Cosa significa per te confrontarsi in scena con un film che pure ha avuto un discreto successo?
La decisione di mettere in scena un testo è un parto infinito soprattutto per noi. In questo caso si tratta di un testo prodotto dal Teatro stabile di Genova che ha il merito di accettare spesso proposte che vengono da noi. Poi bisogna mettersi d’accordo sulla distribuzione e il futuro che riguarda lo spettacolo; quindi anche in questo caso non è una scelta completamente libera ma è dettata dal fatto di far coincidere i nostri gusti, le nostre necessità, i desideri e la possibilità di distribuzione, e incuriosire un pubblico che ora più che mai, credo, sia necessario accarezzare e non prendere a pugni. In questo, i teatri, sia gli ex stabili che quelli di provincia, hanno una grossa responsabilità nelle scelte, perché non si possono fare scelte estreme rischiando la disaffezione del pubblico. Poi per carità è giusto che ci sia un pubblico che possa godere della drammaturgia estrema di autori particolarmente ostici ma è giusto anche diversificare e collocare gli spettacoli nei posti giusti. E’ un lavoro difficile quello della distribuzione e della creazione di un cartellone. Anche io ho una responsabilità, nonostante non abbia una sala, per cui devo fare una cosa di cui sento una necessità, un’urgenza ma nello stesso tempo devo tener conto di tanti altri aspetti. Questo è un testo a cui siamo arrivati; inizialmente volevamo fare Carnage perché a noi interessava esplorare, sempre in una forma di commedia brillante, qualcosa che avesse a che fare con i nuclei, la famiglia. Alla fine, tutto considerato, siamo arrivati a questo testo che, a mio avviso, è anche un’ottima scelta dal punto di vista commerciale. Del resto non bisogna disprezzare questo aspetto, la gente ha bisogno di essere accarezzata, di essere invitata a tornare non di essere aggredita; questo lo si poteva fare tempo fa, col teatro di rottura; adesso non funzionerebbe più perché si trasformerebbe in una sorta di autocompiacimento che può andar bene per certi ambienti ma devasta tutto il resto.

Attualmente, oltre a Le prénom, sei impegnato con Cyrano de Bergerac per la regia di Carlo Sciaccaluga. Cosa significa per un attore confrontarsi con un testo così importante e in che modo hai cercato di personalizzare il tuo ruolo?
Ho fatto quello che credo sia necessario fare quando si affronta un personaggio così celebre come lo è Cyrano che insieme a personaggi come Otello, credo che facciano parte un po’ dell’immaginario collettivo. E’ stato messo in scena da tanti grandi attori, ed esistono varie versioni cinematografiche; per cui ho cercato di affrontarlo senza farmi influenzare da qualsivoglia preconcetto, da qualsiasi produzione e interpretazione precedente, un po’ non guardandole, nel senso che non sono andato a guardare quello di Depardieu né tantomeno messe in scena precedenti, perché temo in generale di farmi influenzare sia positivamente che negativamente. Ho cercato quindi di occuparmi dei problemi di Cyrano; ho cercato di lavorare in modo tradizionale sul personaggio e sulle sue fragilità che era la cosa che più mi interessava; quindi sulla difficoltà e i problemi che possono determinare il fatto di essere un supereroe della creazione verbale, della creazione di immagini, della libertà di pensiero e avere una frustrazione, un dolore, una capacità inaffrontabile rispetto alla propria figura e quindi al proprio approccio nei confronti della persona amata.

La tua carriera nasce come interprete: hai lavorato con tantissimi registi da Benno Besson a Matthias Langhoff, da Luca Ronconi a Marco Sciaccaluga; tuttavia al mestiere di attore hai sempre alternato quello di regista. Le due figure richiedono senza dubbio un approccio diverso. Che tipo di regista sei con i tuoi attori?

Io sono un regista abbastanza morbido nel senso che cerco di fare quello che ritengo sia giusto per la mia personalità e per il mio gusto, cioè quello di mantenere una necessaria leadership e autorità senza tuttavia usare una violenza comunicativa anche perché non ne sarei capace. Amo la collaborazione e la propositività perché credo che sia fondamentale. E tutto ciò non per un fatto ideologico-morale di democrazia a cui non credo, ma per far sentire parte di un progetto creativo anche i miei attori. Non so se questa sia la formula giusta ma riguardo a coloro che non lo fanno, che impongono la loro creatività, anche quando di tratta di artisti di grande spessore, credo che si percepisca un limite per quanto riguarda l’espressione degli attori coinvolti. In questo ho avuto una grande lezione da un regista col quale ho lavorato, Matthias Langhoff, una personalità estremamente brillante; in entrambi i testi, peraltro profondamente diversi tra loro, Il Filottete di H. Müller e L’Ispettore Generale di N. Gogol, ho avuto la percezione di far parte di un mondo. Da lui ho ricevuto una grande lezione, perché nonostante sia un intellettuale strepitoso, un artista senza pari, per certi versi difficile, è un regista che ai suoi attori impone poco; cerca collaborazione e accoglie proposte da chiunque. Per cui sia da attore nel fare le prove che da spettatore, nei suoi spettacoli riconosci sempre delle individualità.

Da regista hai mai pensato al cinema?
No, mi terrorizza solo l’idea; poi per carità avvalendosi di bravi produttori, direttori della fotografia, tecnici, aiuto regista etc credo che siano bene o male in grado tutti di fare i registi. Ma io non mi sento in grado anche se l’idea di fare cinema da regista sarebbe il massimo; io adoro il cinema ma guardo alla figura del regista un po’ come a quella del chirurgo, non riesco a capire come si possa fare.

Teatro, cinema, televisione: la tua carriera spazia da un ambito all’altro ma qual è l’ambiente che preferisci e dove ti trovi maggiormente a tuo agio?
Ad essere sinceri, in questo momento, la cosa che mi entusiasma di più è fare l’attore in cinema e il regista in teatro;in generale faccio regie teatrali con una cadenza biennale e tutte le volte che affronto uno spettacolo da regista, per tutto il periodo che precede l’inizio del progetto sono terrorizzato, insicuro, non vorrei mai cominciare perché in qualche modo avverto una maggiore responsabilità che da attore percepisco in misura minore. Tuttavia, quando comincio, dopo un paio di settimane in cui si protrae questo terrore, mi rilasso e mi entusiasmo. Al cinema non ho il problema del terrore ma sono consapevole di avere tanto da imparare, ho bisogno del tempo necessario per superare questa sorta di timore reverenziale nei confronti della macchina da presa. L’idea di lavorare sempre in ambienti nuovi, all’inizio, essendo timido, mi sovrastava un po’, ma sto imparando a rilassarmi per raggiungere il necessario relax e la necessaria spudoratezza che è fondamentale per gli attori di cinema e televisione.