Incontro con Arianna Scommegna, attrice pluripremiata e direttrice artistica che troveremo presto sulle scene in diversi spettacoli
Una delle più grandi attrici di teatro in Italia: Premio Ubu 2014, Premio Hystrio 2011, Premio Nazionale della Critica 2010, Premio Lina Volonghi 1996, Arianna Scommegna si è diplomata alla “Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi” di Milano. Dal 1996 è socia fondatrice e partecipa ai progetti teatrali e sociali della compagnia A.T.I.R. Teatro Ringhiera di Milano, di cui nel 2021 è diventata direttrice artistica al posto di Serena Sinigaglia. Insieme a lei, nel direttivo anche Mattia Fabris e Nadia Fulco: una scelta volta a dare spazio alla pluralità di voci che contraddistinguono da sempre il lavoro della compagnia.
Prossimamente Scommegna sarà in scena con diversi spettacoli: un progetto su Antigone a Milano, un monologo su Renata Ciaravino, la ripresa della tournée di Misery e la ripresa de Le Supplici da metà febbraio ad aprile.
Tanti progetti diversi quasi contemporaneamente. Ma come si fa e gestire a livello mnemonico tutti questi spettacoli?
Il lavoro sul corpo aiuta molto, perché il corpo ha una memoria molto più profonda. Se fondi la memoria su un corpo, sul suo stare lì in scena a fare quella determinata cosa, non la puoi confondere con un altro: non puoi confondere tua zia con tua sorella.
Scuola di teatro e premi. Cos’ha imparato dall’una e dagli altri?
I premi sono senz’altro un bel riconoscimento e un modo per sentire che il tuo lavoro viene apprezzato da un qualcuno che lo vuole dire pubblicamente. Dalla scuola ho imparato a stare con gli altri, a confrontarmi. Quella passione che sentivo mia era un mondo, e questo mondo doveva essere messo in relazione con gli altri. Il teatro è un lavoro collettivo: c’è il pubblico, lo scenografo, il tecnico luci, le sarte… Il tuo lavoro è quello che succede tra te e il pubblico. Il dialogo è quindi stato una grande scoperta, e la scuola ti insegna a mettere insieme le parti, ad avere un pensiero critico. Non è un caso che è a scuola che ci siamo uniti con i compagni dell’A.T.I.R., ed è una storia che dura da 30 anni: sentivamo che eravamo sinceri fra di noi e volevamo autenticità.
Il Teatro Ringhiera di Milano, la “casa” dell’A.T.I.R. che aveva restituito vita a un quartiere, è ormai chiuso da sei anni. Com’è la situazione?
Avevamo creato un posto e un momento virtuoso, tanto che il luogo era rinato: la cultura è un seme che fa crescere e noi lo facevamo con dedizione. Oggi però siamo ancora lì: non molliamo mai il presidio, siamo sulla piazza, facciamo un festival culturale lì intorno alla chiesa rossa. Bisogna vincere i problemi burocratici, perché i luoghi di cultura ti fanno risparmiare in medicine, in polizia, e bisogna davvero lottare per preservarli. Oggi il quartiere vive un grave danno sociale… ma per fortuna ci sono queste signore, che si chiamano “le pianiste”, che da quando è chiuso il Ringhiera tengono la piazza pulita, annaffiano gli alberi e le piante e rendono pulito un posto che ha le panchine per tutti, dove i bimbi possono giocare.
Com’è cambiato questo lavoro da quando ha iniziato? In cosa è migliorato e in cosa è peggiorato?
Migliorato sicuramente nell’approfondimento della conoscenza di me e anche del mio rapporto con la compagnia: la mia parte istintiva così energetica è maturata. Si pensa che la maturazione nei percorsi artistici abbassi la carica adrenalinica, perché in fondo il teatro è eros, e quindi hai paura della parte della coscienza… invece io non ho perso nemmeno una scintilla.
Nonostante tutte le difficoltà, il periodo del Covid che ha messo in discussione la nostra funzione e ci ha fatto rendere conto di quanto fosse precario il nostro lavoro, la verità è che di questo lavoro non se ne può fare a meno. Anzi, siamo rimasti vicini alla gente in modo sempre più creativo. In cosa sia peggiorato non lo so… mi sembra di intuire talvolta un limite molto legato all’immagine e poco alla sostanza. Il rischio è che diventi una cosa esteriore per una forma, dove la vanità può fregarti.
I suoi personaggi in scena sono memorabili. Come si prepara a interpretarli, che lavoro c’è dietro?
Negli anni mi sono avvicinata ai personaggi in modi diversi. Spesso ci arrivi per vie traverse, ma altrettanto spesso cerco le persone che mi somigliano: osservo tantissimo, memorizzo visivamente i comportamenti, i modi di fare… e quella è una prima indagine. Poi leggo molto, studio. Per esempio, dovevo interpretare tre figure della polizia: un ispettore, una poliziotta semplice e un’agente speciale. Era un mondo che non avevo mai incontrato e quindi ho passato due giorni in questura, ho incontrato persone, visto documentari, ho letto testimonianze. Torno al discorso del corpo, che è basilare: il personaggio alla fine non è altri che un corpo che si relaziona col mondo, fisicamente ed emotivamente.
C’è un collega con cui non ha ancora lavorato e vorrebbe lavorare?
Mi piacerebbe lavorare con tantissimi, ne cito alcuni: Paolo Rossi, ma anche Silvio Orlando, che è un attore straordinario con un’umanità che arriva dritta al cuore. Ma anche Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi, o Lella Costa.
Se potesse invece fare un salto indietro nel tempo, in quale fase della storia del teatro vorrebbe vivere?
Che bella domanda! Ecco, io vorrei catapultarmi negli anni ‘70 e incontrare Judith Malina… quando c’era quel fermento creativo così libero, così ingenuo nei confronti del futuro. Sembro fricchettona? (ride, ndr).
Fricchettona no, ma lei per esempio non usa i social. Come mai?
Ho però whattsapp e un sito, e mi appoggio ai social dei vari teatri. Non mi sento in grado di riuscire a gestirli. Mi dedico molto al lavoro e soprattutto mi dedico al rapporto umano. Non so come si faccia a gestire anche i social.
Perché fa l’attrice, Arianna Scommegna?
Era un desiderio da quando ho memoria. Le mie amiche dell’asilo ricordano ancora oggi che ho sempre detto che volevo far il teatro. Col tempo ho capito si può già avere l’intuizione di qualcosa che ti serve già da piccoli. Mi sono resa conto che era una necessità legata a un desiderio di conoscenza e di indagine dell’animo umano. Io sentivo che volevo immedesimarmi in altre storie e vivere altre storie per centrare meglio il mio stare in piedi nel mondo. Il fatto è che il teatro ti rende libero: il tuo strumento sei tu, puoi farlo dove vuoi. Basta solo che ti prendi cura del tuo strumento.