Il dramma di Strindberg in scena dal 13 marzo al Teatro della Corte di Genova.
“Ogni sera in camerino, prima di andare in scena, tra una battuta e l’altra de “Il padre” che ripasso mentalmente, si insinuano i versi di Leopardi”, dice Gabriele Lavia che il 13 marzo approderà al Teatro della Corte di Genova, sede dello Stabile, con Il Padre, il dramma di Strindberg.
Effetto dell’alternanza ravvicinata tra le repliche del dramma e quelle di un recital nel quale sta ridando voce al poeta, da “Il sabato del villaggio” al “Cantico di un pastore errante”?
Tutt’altro che uno scherzo casuale della memoria. La vicinanza tra un’interpretazione a l’altra semmai facilita la consapevolezza di essere di fronte alla stessa vertigine. Leopardi non ha mai conosciuto in prima persona i conflitti di cui si parla in questo dramma, non ha avuto una moglie, non è stato padre, non ha dovuto scontrarsi sull’educazione di una figlia. Il senso di annientamento e di disorientamento di fronte alla vita che si respira in lui, tuttavia è lo stesso di Strindberg.
Annientamento storico e cosmico?
E’ proprio quella che rende diversa questa storia da una banale vicenda di corna ottocentesca. E che mi ha fatto preferire una scenografia fatta di infinite onde di velluto rosso a un normale salotto. Il capitano, come accennavo, è in contrasto con la moglie sull’educazione da impartire alla figlia quando gli si insinua nella mente il dubbio che la sua non sia una paternità biologica. A questo punto entra nella spirale di un giallo psicologico.
Questa tragedia quanto può appartenere allo spettatore contemporaneo?
Quel che è certo, e che va al di là dell’epoca in cui e stata scritta, è il tormento di quest’uomo. Aggiungo che questo spettacolo colma una carenza perché di paternità si parla troppo poco.
Oltre ai versi di Leopardi, lei pensa ai suoi figli prima di andare in scena? Che padre che educatore è lei, permissivo o castrante?
Magari esistesse la formula per essere un padre perfetto. Con i miei figli, in privato, sono anche troppo permissivo. Quando però, come Lorenzo o Lucia decidono di fare il mio lavoro, sono molto severo e non faccio sconti se devo metterli di fronte a tutte le difficoltà. Credo di essere nel giusto perché non sono riuscito a dissuaderli e, dalla mia “palestra” sono usciti ancora più convinti e forti.
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