Incontrarlo è piacevole perché Massimo Dapporto ha un sorriso gradevole, una bella voce tenebrosa e uno sguardo assolutamente limpido e disponibile. Ovunque vada, si porta appresso quel cognome ingombrante, ereditato da un uomo sicuramente delizioso ma tanto celebre. Carlo Dapporto ha lasciato il segno in un'Italia oggi dimenticata, con la televisione in bianco e nero e gli sceneggiati colmi di valori umani come onestà, sincerità e fiducia. Pochi tradimenti. Dopo aver iniziato facendosi spazio a Roma nei teatrini meno importanti, Massimo ha seguito tutta la gavetta dei suoi simili senza cognome ingombrante. Solo dopo anni di duro lavoro è stato riconosciuto come ottimo attore e bravo artista. Oggi è considerato un punto di riferimento per il teatro italiano per via della sua sapiente capacità nel calarsi in personaggi fra i più disparati. Al Teatro Manzoni, dall'8 gennaio al 3 febbraio 2008, Dapporto interpreta un duplice ruolo ne I due gemelli veneziani, opera settecentesca di Carlo Goldoni, vero capolavoro della comicità e della scrittura scenica. Ricordando che questo spettacolo segue un tour che va in tante località e si conclude il 20 aprile, ecco cosa ci racconta Massimo Dapporto.
Interpretare i ruoli di due gemelli, Tonino e Zanetto, che effetto ti fa?
Finalmente posso permettermi di scegliere cosa fare e questo è una delle cose che desideravo fare. Tonino è un uomo che non improvvisa mai nulla, sembra un libro stampato quando parla, è tutto controllato. Io in questo riconosco la recitazione delle opere di prosa, mentre suo fratello Zanetto vive come accade nel varietà, coi tempi della comicità che lasciano spazio all'improvvisazione. In questa io ho avuto le mie radici, il che mi permette di ricordare mio padre. Ma ormai sono 37 anni che lavoro, ho debuttato nel 1971 e posso solo dire che poter fare scelte personali è un bel piacere. Mi ero già concesso di fare La coscienza di Zeno e poi ll malato immaginario. Adesso voglio godermi questo momento coi gemelli di Goldoni, in cui sento di esprimermi a 360°.
Hai debuttato a livello nazionale a Trieste lo scorso novembre. C'è differenza tra recitare in una città piuttosto che in un'altra?
Beh, qui a Milano bisogna stare attenti a non finire tardi, altrimenti la gente scappa fuori alla spicciolata per l'ultimo metrò. Ma io ho imparato a finire per tempo e la gente si ferma perfino ad applaudire.
Uno dei due gemelli, Zanetto, è molto comico ma muore in scena. Come ti fa sentire?
La morte comica fa ridere moltissimo, ma a me dispiace molto che il personaggio faccia questa fine e io non la faccio comica, la sua morte, ma tragicomica. Zanetto fa una fine predestinata e la cosa ti colpisce allo stomaco ma fa anche sorridere e ridere. Io non l'ho mai visto soltanto come divertimento, la morte di Zanetto. Quando riappaio a fine commedia, per gli applausi, Tonino raccoglie molti consensi ma l'apparizione di Zanetto trascina l'entusiasmo del pubblico, che dimostra come gli si è affezionato durante la messa in scena.
Se ora fai ciò che vuoi, come sono stati gli inizi?
Ho debuttato a teatro nel 1971 per poi fare doppiaggio per un paio d'anni prima di arrivare in televisione nel 1973, quando i programmi erano ancora in bianco e nero. Poi ho fatto del cinema e negli anni '90 sono tornato in televisione con le fiction. E' ovvio che tornare a teatro dopo aver fatto televisione attiri più pubblico. Così ho cominciato a fare i pienoni. La televisione è una spinta fortissima, non solo perché spinge a vedere gli attori 'dal vivo', se possibile, ma anche perché la TV sta imbastardendo l'italiano. Molta gente che viene a teatro spera di reimparare la propria lingua.
All'inizio non sei stato aiutato dal cognome importante?
A me nessuno ha mai regalato niente. I lavori di routine che sono stato costretto a fare e il doppiaggio, 9 ore in sala d'incisione al giorno per pagarmi gli studi all'Accademia Drammatica, è stato un inizio avvilente. Però guadagnavo qualcosina e potevo incontrare gente dell'ambiente che tanto mi appassionava. L'incontro davvero fortunato l'ho avuto nel 1988, quando Lucio Ardenzi mi ha proposto dei ruoli teatrali da protagonista. Eppure, ogni volta mi sembra di aver ricominciato da capo: ho fatto cinema (con Mignon è partita di Francesca Archibugi ha vinto nel 1989 il David di Donatello come miglior attore non protagonista, ndr), televisione ma la gioia e l'entusiasmo di questo mestiere è lo stesso di quando sono uscito dall'Accademia.
Ti vanti un po' dei tuoi risultati?
Io sono riuscito a fare televisione di qualità, come lo sceneggiato su Falcone, poi ho smesso e non ricomincio finché non troverò ruoli validi da interpretare. Se sembra strano che faccia commenti indelicati, ebbene sì, io sputo nel piatto dove mangio, se il piatto è vuoto. Oggi in televisione un attore può fare solo fiction, tanto vale farlo bene. Il cinema non mi considera neppure. Nessuno mi ha regalato niente, né prima né mai. Mio padre era un uomo d'altri tempi e, per suo carattere, incapace di raccomandarmi. Tra lui e me c'è stato il cambiamento del mondo dello spettacolo. Lui non voleva neppure frequentare le persone e ci ho messo del tempo a convincerlo a tornare sul set per lavorare con Ettore Scola ne La famiglia, nel ruolo del padre anziano accanto a Vittorio Gassman e ad altri grandi nomi.
Insomma, lo hai raccomandato tu!
Sì, sono l'unico figlio d'arte che ha fatto lavorare il padre famoso! Gli somiglio così tanto da essermi convinto di essere figlio di una clonazione.
A parte Carlo Dapporto, quali attori ti hanno lasciato il segno?
Sicuramente Alberto Lionello, del quale infatti ho scelto molti ruoli da lui interpretati prima di me. Lo considero un maestro, mi piaceva tanto. Pure lui fece I due gemelli veneziani, come La coscienza di Zenoe Il prigioniero della 2° strada. E come lui non mi do delle arie, vivo una vita semplice, non ho l'autista privato e abbraccio le persone se mi va. Io rischio di essere me stesso anche perché, a fingere, a sera sarei stanchissimo.
Tu ami un certo tipo di percorso tradizionale?
Attenzione: più che la tradizione, che non ti porta mai avanti e ti costringe allo stesso tipo di percorso, sono i valori che bisogna mantenere, magari su basi nuove. Questo vale per il teatro come per la famiglia o la società. E mi preoccupa notare che proprio i valori scompaiono. Vedi, i valori sono dentro di noi e ognuno ha i suoi, anche se si è diversi. Noi abbiamo un teatro tradizionale che sembra morente, ma va portato avanti. E' un po' una palude, i grandi sono sempre Shakespeare, Goldoni, Pirandello ma vale la pena ricordarli!
Hai veri amici nel tuo ambiente?
Sì. Io sono amico di Luca Barbareschi, un attore scomodo perché dice sempre, ciò che pensa, la verità e io ho la fortuna di frequentarlo almeno una ventina di giorni all'anno, d'estate a Filicudi. Una ventina d'anni fa facemmo assieme Mercanti di bugie di Mamet e lui ha davvero dei valori forti. Mi piacerebbe tornare in scena assieme a lui e forse il nostro incontro teatrale si ripeterà.
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