Conversazione con Laura Angiulli, regista e direttrice di Galleria Toledo a Napoli
Dopo un’arrampicata sull’altura di Montecalvario, nel cuore dei Quartieri Spagnoli, si arriva a Galleria Toledo, uno dei più attivi spazi napoletani d’innovazione teatrale, quasi incastrato fra le case circostanti e una gradinata scura che conduce ancora più in alto. Sul grande palco nero coi pilastri a vista hanno recitato alcune tra le più importanti figure del teatro d’innovazione. Negli anni Novanta la sala da trecento posti era puntualmente piena quando arrivava, ogni volta attesissimo, Enzo Moscato con le sue formidabili rapsodie verbali.
Laura Angiulli ha diretto questo teatro fin dalla sua inaugurazione. Regista e drammaturga, si è dedicata a lungo all'opera di Shakespeare ricavandone spettacoli di fluida leggibilità in modo da coinvolgere a più livelli anche un pubblico meno abituato ai ritmi, ai tempi e alla complessità della scrittura teatrale.
Come hai cominciato a lavorare su Shakespeare?
Il mio approccio fu la Trilogia del male, un’elaborazione fatta a partire da frammenti di Riccardo III, Macbeth e Otello; come dire il male osservato da tre prospettive diverse. Quella scrittura portò poi allo sviluppo di tre scritture indipendenti, alle singole tragedie. Ma poi non mi sono più fermata ed oggi abbiamo parecchi lavori in repertorio.
In genere le tragedie sono più rappresentate delle commedie.
Ho lavorato anche su diverse commedie, dove spesso le donne sono astute e intelligenti, e gli uomini non riescono a raggiungerle. Abbiamo fatto, fra le altre, Misura per misura – un’opera che ha anche i colori della tragedia, a tratti oscura, politica, che riflette sul concetto di giustizia – e poi La dodicesima notte, che considero deliziosa, Molto rumore per nulla – in questi giorni in scena a Galleria Toledo, ndr – e La bisbetica domata, dove si sente ancora l’umore della commedia dell’arte ma con un livello di competenza drammaturgica molto più raffinata. Ci siamo molto divertiti a metterla in scena.
Come lavori per creare i tuoi adattamenti?
Shakespeare scriveva per molti personaggi perché aveva una compagnia ampia; sono certa che nella pratica la messa in scena prevedeva tagli e aggiustamenti. Io lavoro anzitutto sulla scrittura, sulla traduzione; secondo me tradurre Shakespeare significa mantenersi aderenti al significato delle parole. In una traduzione quasi letterale si trova la contemporaneità di Shakespeare, che ha una scrittura netta e pulita. Parto da diverse traduzioni esistenti di un’opera e poi scelgo, riadatto, modifico secondo un punto di vista, un’idea drammaturgica che intendo realizzare.
Senza temere di rimaneggiare il Bardo.
Assolutamente. Per esempio in Amleto ho eliminato il personaggio di Orazio, l’amico affettuoso, che mi sembra un inutile paracadute al protagonista, a cui ho voluto lasciare la totale responsabilità. Non ho paura di rimodellare Shakespeare. Ho fatto un Riccardo III, che ha girato in tutta Italia, a pianta centrale, con tre soli attori; uno di questi era il bravissimo Stefano Jotti, purtroppo da poco scomparso, e alla cui memoria cui ho sentito di dedicare la ripresa di Amleto.
In Shakespeare c’è una sontuosa varietà di lingua e di registri.
Per esempio in Molto rumore per nulla c’è il linguaggio dell’arguzia della scaltra Beatrice, e anche i giochi di parole della parte più comica, nella ronda delle guardie, in cui il lessico si deforma. Otello fa innamorare Desdemona con la bellezza dei suoi racconti, che parlano di altri mondi; ma poi, avvelenato da Jago, muta il suo linguaggio che diventa infimo e volgare.
A quale pubblico ti rivolgi?
Noi lavoriamo molto con gli studenti – soprattutto licei e università – ma naturalmente il pubblico a cui penso è più ampio. L’anno prossimo metteremo di nuovo in scena Il mercante di Venezia, un testo amatissimo che ci viene richiesto continuamente.
Ci sono capolavori anche fra le opere meno presenti sui palchi nazionali.
Riccardo II è forse la mia opera preferita, che mi affascina e mi coinvolge per la fragilità del protagonista: questo re colto e raffinato che posto davanti alle esigenze di una sovranità brutale e guerriera, crolla. Ne ho tratto anche un film, Il re muore, che è stato in concorso al festival di Taormina.
Da più di trent’anni sei anche la direttrice artistica di Galleria Toledo. Vorrei che mi citassi alcuni fra gli interpreti o fra i lavori che avete portato qua e che ti sono rimasti impressi.
I Marcido Marcidorjs, di cui ricordo un Genet che accadeva sotto una tenda al centro del palco, con gli spettatori intorno, che spiavano dalle fessure [Le serve, una danza di guerra ndr]; Elena Bucci, attrice strepitosa che amo da morire, che l’anno scorso ha portato Bimba ‘22, un lavoro su Laura Betti; Danio Manfredini con Il miracolo della rosa; Remondi e Caporossi, che qui hanno fatto Sacco; e poi Marco Baliani, Claudio Morganti, Alfonso Santagata, ma anche più recenti ricci/forte, Raffaello Sanzio, i Motus che ci hanno portato il famoso MDDLSX.
Anche Enzo Moscato è stato spesso su questo palco.
Ricordo che vidi Fuga per comiche lingue, tragiche a caso per sei sere consecutive, e ogni sera piangevo. Poi venne qui a Galleria Toledo con Mal d’Hamlé, Reci-diva, Compleanno, e gli altri grandi capolavori di quell’epoca.
Dimmi un lavoro che hai portato sul tuo palco e che ricordi con particolare affetto.
Sono molto legata all’opera di Jean Genet. Ho fatto qui Tatuaggi con Antonio Pennarella, Marcello Colasurdo e Lello Serao, con la trasposizione in napoletano di Enrico Fiore, una scrittura di eccezionale bellezza. Ma fammi citare anche Lucy e le altre, in cui ho rielaborato alcuni lavori di Philip Roth: un autore di grande complessità, che trovo immenso.
A cosa stai lavorando?
Un nuovo spettacolo su Strindberg, che spero di poter mettere presto in scena.