L'intervista a Lino Guanciale. La sua versatilità la si può verificare soprattutto a teatro. Sulla scena ha all’attivo moltissimi ruoli, sempre di grande impegno.
Da Mozart a terrorista. Al cinema, rispettivamente nel film di Carlos Saura "Io Don Giovanni", e "La prima linea" di Renato De Maria. Ma la versatilità di Lino Guanciale la si può verificare soprattutto a teatro. Sulla scena ha all’attivo moltissimi ruoli, sempre di grande impegno.
Tra gli ultimi l’aver dato corpo e voce ai personaggi inquieti di Bernard-Marie Koltès. Ora impegnato al teatro India di Roma nel progetto di Michele Placido “I fatti di Fontamara”, ispirato al romanzo di Ignazio Silone, il giovane attore di Avezzano dimostra ancora una volta una padronanza della scena davvero autorevole.
Ma passiamo subito a parlare di cinema, questa tua nuova fase. Come è arrivato?
Mi sono dedicato al teatro per scelta. La televisione ho deciso di non affrontarla, almeno per adesso, dicendo anche di no a delle buone offerte, perché credo di più nella necessità di un altro tipo di lavoro. Il caso ha voluto che Carlos Saura cercasse un attore che sapesse anche suonare il pianoforte per fare Mozart nel film “Io, Don Giovanni”, e sono stato scelto abbastanza rocambolescamente. È stata un’esperienza molto bella e non mi sono quasi accorto di fare una cosa nuova, perché il regista ci lasciava molto liberi. Carlos è davvero una persona straordinaria! Nonostante le opinioni discordanti sul film, poi, riguardo il mio lavoro ho avuto tanti buoni riscontri, e questo mi ha fatto molto piacere.
Subito dopo con la Lucky Red è venuto fuori “Prima linea”,con il tuo personaggio, Piero, che fa da contraltare all'amico e terrorista Riccardo Scamarcio…
Avevano dato al regista Renato De Maria un frammento di “Io Don Giovanni” da vedere. Mi ha voluto fare un provino e mi ha subito preso per interpretare Piero, un personaggio fittizio ma molto plausibile, che Sandro Petraglia e gli altri sceneggiatori hanno elaborato per farne il contraltare etico più che ideologico del film.
Ce lo descrivi un po’?
Sostanzialmente è un militante extra parlamentare di sinistra, anche duro quindi, che però sceglie di non ammazzare, di non fare la lotta armata, perché pensa che il terrorismo faccia solo un favore ai conservatori, legittimando qualunque ritorsione da parte dello status quo. Di fatto così si segano le gambe a qualsiasi contestazione, a ogni opposizione critica. Infatti negli anni ‘70 bastava che qualcuno fosse contrario alle misure prese dal governo per fronteggiare la crisi economica o il terrorismo e subito veniva additato come fiancheggiatore o cattivo maestro. Personalmente mi sono ritrovato abbastanza nella figura di Piero.
Tra l’altro nella scena in cui ti incontri con Scamarcio - forse uno dei momenti più emozionanti del film – sei molto credibile, oltre che bravo, nelle parole che rivolgi a lui…
A differenza degli altri pur bravi attori provinati che avevano dato di Piero l’immagine di uno sconfitto, cui sostanzialmente era mancato il coraggio di passare alla lotta armata, quello che ha convinto Renato a prendermi per quel ruolo fu, invece, la mia diversa concezione e interpretazione del personaggio. Per me la militanza politica, anche la più aggressiva e dura, si può fare per via democratica. Quindi in una figura così, in uno capace di condurre la propria vita nella maniera più umana possibile, mettendo la politica in una posizione prioritaria senza che questo significhi ammazzare la gente per strada, mi riconosco.
Ormai il cinema ti appassiona particolarmente, e i tuoi trascorsi di spettatore lo certificano…
È chiaro che m’interessa anche al cinema un certo tipo di lavoro, non perché ho la puzza sotto il naso, per carità! Non mi faccio scrupoli, in teatro, a fare cose, diciamo, da sbarco, o magari di puro intrattenimento. L’importante è che ci sia sempre intelligenza in quello che si fa.
Cerchi comunque di scegliere quello che ti interessa di più, che corrisponde ai tuoi principi, che ti è più consono…
Anche quello in cui intravedo una possibilità di crescita. Per esempio mi interessa molto conoscere altri giovani che fanno cinema, lavorare con chi si trova alle prime esperienze. Oltre, naturalmente, all’opportunità importante di lavorare con professionisti già affermati.
A gennaio eri al Teatro Due di Parma con dei testi di Edoardo Sanguineti riuniti nel titolo “Prendi un piccolo fatto vero”, e prima ancora all’India di Roma con l’impegnativo trittico "Omaggio a Koltès" del drammaturgo francese. Un grande successo tuo e delle compagnia, e del regista Claudio Longhi. Insieme a lui hai fondato l’Associazione Culturale Mimesis.
L’ obiettivo è la diffusione di una cultura del teatro come insostituibile strumento di conoscenza, maturata attraverso l’esperienza, in un fitto dialogo con tutti gli altri campi del sapere umano (dalla letteratura alla filosofia e alla scienza, dalla politica alla riflessione storica) e al tempo stesso come luogo deputato ad una possibile rifondazione di un senso forte dei valori del vivere in comune.
Alla professione dell’attore accompagni dunque una passione per la didattica teatrale. Per "Omaggio a Koltès" vi siete fatti carico anche di un lavoro di formazione del pubblico giovane tenendo, nei mesi precedenti, diversi incontri nelle scuole.
Erano lezioni-spettacolo per aiutare innanzitutto a prendere confidenza con un autore contemporaneo. Impresa ardita, dato che la conoscenza teatrale dei ragazzi dei licei si limita ai soli classici come Shakespeare, Pirandello e qualcun altro… Già per le materie curriculari, come storia, filosofia, letteratura, gli insegnanti riescono ad arrivare fino e non oltre il 1950. Figurarsi per il teatro! Se viene toccato, avviene solo marginalmente. Per quello che riguarda questo nostro ultimo progetto, il ciclo di incontri che abbiamo proposto alle scuole superiori si è concentrato sulla drammaturgia contemporanea, da Alfred Jarry fino a Koltes, abbracciando il XXI secolo, per aiutare i ragazzi a contestualizzare quello che avrebbero poi visto in scena. Nel panorama vastissimo della rivoluzione teatrale che è stato il Novecento, abbiamo lavorato sui nomi di Beckett e di quegli autori che hanno in qualche modo cercato di rispondere al “reset” operato da lui, facendo gli esempi di Thomas Bernhard, Sahra Kane e altri, fino ad arrivare appunto a Koltès.
L’interesse dei ragazzi credo sia dovuto anche al fatto dell’efficacia della formula usata, quella cioè di essere voi stessi ad incontrarli nelle scuole. Avete avuto riscontri positivi?
Fin dalle prime volte, direi. Come dici tu, crediamo che la formula sia azzeccata: i ragazzi vedono letteralmente il teatro “piombargli” in classe, con attori che si incaricano sia di recitare per loro dei brani teatrali, sia di guidarli nella scoperta e nella comprensione di quei nessi storici, teorici e critici fondamentali per capire i testi e goderli appieno. Questa formula ibrida di lezione-spettacolo, ovviamente, implica anche l’acquisizione, da parte degli stessi attori coinvolti, delle competenze culturali necessarie ai fini della didattica, sicché l’operazione si rivela un’opportunità di crescita importante anche per loro. La formazione del pubblico, per noi, è anche formazione di attori consapevoli delle proprie responsabilità culturali e civili. Il tutto funziona, poi, perché gestiamo questi incontri in maniera divertente, cercando di coinvolgere i ragazzi per creare interesse ed empatia, proponendo loro il teatro come un gioco!
Insomma, si tratta di fornire i mezzi per avvicinarli al teatro?
Esatto, affinché si liberino dell’immagine che spesso ne hanno. Dalle loro parole si evince, infatti, che ne hanno un’idea vagamente informe … e che spesso (a prescindere! Magari senza esserci mai neanche stati…) pensano che sia una cosa noiosa. Conduciamo questi incontri ormai da diversi anni, e solo da poco per il Teatro di Roma. Lavoriamo, invece, da quattro anni in maniera continua col Teatro Due di Parma, su questo progetto, e lì i risultati non solo sono stati ottimi, ma ad oggi anche ben consolidati. Tanto che per i ragazzi aderenti si è studiata anche una formula agevolata di abbonamento. Abbiamo costatato, fra l’altro, che una cosa che funziona molto è il confronto successivo alla visione dello spettacolo: se ci si presenta alla pari, con i ragazzi, per raccogliere i loro dubbi, le loro domande o il loro entusiasmo, se ci si mette in discussione con loro, insomma, non solo li si rende più partecipi, ma si può cominciare a parlare concretamente di teatro come necessità sociale.
Siete forse gli unici in Italia a fare questo lavoro progettuale così impegnativo e costruttivo… Crediamo sia fondamentale. Uscito dalla Silvio D’Amico ho iniziato subito a lavorare con compagnie grandi – Proietti, Branciaroli, Longhi, Ronconi -, e quello che appariva evidente, a me allora neofita, era l’età media piuttosto alta del pubblico teatrale. I giovani che vanno a teatro spesso lo fanno perché hanno un interesse specifico, e sono una cerchia chiusa. Invece crediamo che il teatro sia importante per tutti, al fine di riscoprire proprio la tattilità dei rapporti umani. Su questo discorso i ragazzi sono particolarmente sensibili: loro che paradossalmente hanno la maggiore confidenza con le varie tecnologie di mediazione dei rapporti, forse proprio per questo avvertono maggiormente il bisogno del ritorno ad una maggiore fisicità.
Non credi quindi a coloro che dicono che il teatro verrà soppiantato dalle nuove tecnologie?
No, perché servirà sempre questo posto in cui una persona in carne ed ossa ti propone un’esperienza reale da vivere insieme. Ma bisogna che a monte di tutto ci sia l’intenzione di questo rapporto da parte di chi il teatro lo fa, la cognizione del valore delle relazioni umane, perché molti spettacoli oggi vengono fatti prescindendo da chi sta lì a guardarli. Lo spettatore deve andare a teatro aspettandosi qualcosa di specifico, e non un’alternativa al cinema o alla tv, o all’uscita con gli amici. Dovrebbe avere la coscienza di andare a vedere, a sentire e a condividere un’esperienza fisica con un altro: gli altri spettatori e gli attori in scena.
Il profilo della vostra attività è profondamente educativo e, credo, si ponga anche come modello di cosa un teatro può e dovrebbe fare…
Pensiamo sia necessario soprattutto dal punto di vista del servizio pubblico, perché c’è forte necessità di ricambio e di rinfocolamento di nuove energie nel pubblico teatrale. Questo lavoro con i ragazzi per dotarli di strumenti e modelli di riferimento, ha portato sempre ottimi frutti. Crediamo che sia importante fare spettacoli non soltanto belli, ma che siano poi occasione per un discorso culturale e civile da portare avanti con tutti quelli che vi partecipano, tanto chi lo fa quanto chi ne fruisce.
Come si svolge una lezione-spettacolo?
La prima volta chiedo sempre che cos’è il teatro secondo loro. Le risposte sono eloquenti. Non avendo schermi e sovrastrutture, i ragazzi, nella loro ingenuità, dicono cose intelligenti. Uno mi ha risposto: “Il teatro è il cinema o la televisione dal vivo”. Risposta indicativa di un fatto: che il teatro si percepisce non con un suo modello specifico di espressione e di comunicazione, ma, appunto, come quella cosa curiosa di andare a vedere la tv senza che ci sia lo schermo. Questo, secondo me, evidenzia un fatto di cui prendere atto: che tanto teatro comincia a risentire troppo dei modelli televisivi di comunicazione. E ciò è preoccupante.
Quando chiedete degli spettacoli che hanno visto dopo la vostra lezione, cosa rispondono?
Ci sono quelli che fanno delle domande cercando di verificare gli strumenti che abbiamo dato loro sul testo; altri che si limitano a dire se gli è piaciuto o meno; altri, inizialmente convinti che non gli sia piaciuto, col parlarne finiscono col ribaltare i pareri; altri ancora dimostrano subito una capacità, seppur ingenua, di argomentazione. Quelli che non erano mai stati a teatro si stupiscono di non essersi addormentati e di essere riusciti a seguire; altri, invece, con precedenti frequentazioni, dicono di non aver mai vissuto così bene il teatro.
Sembra banale, ma a fare la differenza, forse, è il fatto che voi attori fate sentire necessari gli spettatori…
A noi interessa non l’indottrinamento a fini personali – siamo molto felici quando riceviamo delle critiche anche sonore, se sentiamo che sono ben argomentate dai ragazzi: consideriamo quello come il più bel successo del lavoro formativo! –, ma che il pubblico cominci ad andare a teatro pretendendo da chi fa gli spettacoli che lo faccia sentire indispensabile. Altrimenti la differenza tra il teatro e gli altri strumenti di comunicazione che utilizzano la finzione recitativa non può essere recepita, perché gli altri modelli sono molto più forti dal punto di vista quantitativo. La differenza allora deve essere la qualità della relazione che riesci a instaurare con lo spettatore, fare davvero come se ci fosse, dal momento che in effetti c’è! Ogni cosa deve partire da quel rapporto.
Si riscontra in te una particolare indole per la didattica, per l’insegnamento. Da cosa nasce questo interesse?
Probabilmente dalla mia formazione. Mia madre è una maestra, mio padre medico e anche lui nel suo campo è stato docente. Sono loro ad avermi trasmesso questa “verve” pedagogica. Con Claudio Longhi, che è professore associato di teatro, ci siamo trovati anche su questo. I nostri modelli, pur se a volte lontani dal nostro gusto, sono quelli dei grandi pedagoghi come Mejerchold e Grotowski, persone che consideravano il teatro come una forma di conoscenza e una modalità attraverso la quale far crescere le persone che lo fanno e che vi partecipano. Il teatro come occasione, anche, per la messa in discussione di quei principi critici attraverso cui interpretiamo la realtà.
In questo progetto si sono uniti altri…
Sì, da Luca Micheletti a Giacomo Pedini, all’associazione culturale Mimesìs (fondata con Rosanna Magrini, Ivan Giglio e Stefano Tognarelli), i cui membri lavorano molto sul territorio toscano, mentre noi portiamo avanti lo stesso discorso più “in trasferta”. E così anche con Fausto Cabra, Valentina Bartolo, Diana Manea e tanti altri. Il nostro profilo identitario, attorno al quale abbiamo cominciato a far gravitare le altre persone, è centrato su quest’ottica.
Volevi fare il medico e ti sei ritrovato a fare l’attore. Come è successo?
Ho un modello molto forte in mio padre, che al di là dell’amore filiale stimo moltissimo. Ho sempre avuto, però, una grande attrazione per la recitazione, per il cinema in primo luogo, visto che ad Avezzano, in Abruzzo, da dove provengo, il teatro non esisteva. Sono andato a teatro la prima volta quando sono venuto a Roma per fare l’Accademia Silvio D’Amico! A 13 anni ero l’unico abbonato alle serate d’essai del cinema del mio paese, e certi film mi trovavo a vederli da solo. Da piccolo volevo fare qualche cosa che riguardasse queste mie passioni, però me le sono sempre negate perché troppo distanti da una forma di vita normale. Sicuramente se non avessi fatto l’attore avrei fatto il medico,
Un’altra maniera per curarsi delle persone! Ritorna in te sempre una dimensione, direi rara, di necessità di relazione umana…
L’orizzonte è sempre quello. Poi mi sono trovato a fare l’attore con lo spirito, idealmente, del medico (ride, ndr) e dell’insegnante. All’ultimo anno della scuola superiore, quando davo per scontato che avrei fatto il medico, ho provato a fare un laboratorio teatrale. Il teatro mi faceva paura perché temevo che mi sconvolgesse i piani. Ed effettivamente così è stato. Ho fatto la prova d’ingresso per medicina a Roma, sono passato ma poi non mi sono iscritto … e ho comunicato ai miei che avrei fatto altro. Mi sono iscritto alla facoltà di lettere alla Sapienza, e intanto lavoricchiavo con una compagnia del mio paese. Dopo un anno e mezzo di università, in cui avevo lasciato progressivamente il teatro per vedere se mi mancava al punto da volerlo veramente scegliere come centro esistenziale, ho provato ad entrare in Accademia e per fortuna ci sono riuscito. Durante quegli anni ho cominciato a vedere spettacoli. All’inizio avevo l’imbarazzo dello spettatore neofita e non mi pronunciavo perché per me era tutto una specie di meraviglia. Poi sono stato spettatore onnivoro e ho avuto la fortuna, uscito dall’Accademia, di cominciare subito a lavorare. Prima con Gigi Proietti, dopo con la compagnia Gli Incamminati di Branciaroli…
Il cui regista era Longhi, e gli spettacoli “Cos’è l’amore”, “La peste”, “Caligola”, “Edipo e la sfinge”. Poi le vostre strade si sono divise, e hai partecipato a due spettacoli del Progetto Olimpico di Ronconi a Torino…
Con Ronconi si era stabilito un ottimo rapporto di stima. Però, anche lì, più che continuare a lavorare in quel contesto, ho preferito concentrarmi su una direzione che mi permettesse di fare il tipo di lavoro di cui parlavamo prima.
Ti sta stretta l’idea di attore scritturato e di giro…
Sì, anche se è un giro di scritture importanti. Mi sta stretta perché sento che non è al passo con i tempi che vivo. Credo che oggi sia necessario ricostruire il rapporto con il pubblico, non si può darlo per scontato. Penso che un giovane attore che inizia non possa non partire da questo dato di fatto. La condizione in cui, ad esempio da Orsini a Popolizio, i grandi attori hanno fatto una certa carriera o hanno cominciato a lavorare, non è più ripetibile. Non è più sufficiente stare in teatro e fare dei bei spettacoli. Ed è questo lo spirito con cui ho affrontato le avventure successive di questi anni, dalla Compagnia Permanente dello Stabile di Torino fino al lavoro con i ragazzi.
Fra i tanti incontri importanti uno è stato quello con Massimo Popolizio, conosciuto a Torino lavorando insieme nello spettacolo “La peste”. Poi altri spettacoli tra cui, ultimo, “Plutos” dove era regista…
Da subito si è stabilito con Massimo un rapporto di confidenza, di stima. Ho avuto l’opportunità di imparare tantissimo osservandolo e cercando di attingere al suo repertorio di conoscenze sceniche. Massimo è sicuramente l’attore con la più grande intelligenza scenica che io abbia mai visto finora. Uno la cui testa funziona come un orologio di palcoscenico. Ha una capacità unica di organizzare, proprio per istinto puro, ciò che deve succedere in palcoscenico.
Continui, impegni permettendo, a essere spettatore? Segui tutto o selezioni un certo tipo di teatro?
Cerco di seguire tutto quello che c’è, per avere un panorama di riferimenti il più completo possibile. Mi interessano di più i lavori delle compagnie giovani. Cerco di capire che fine sta facendo la regia nell’epoca post-registica in cui viviamo, e in cui c’è bisogno che si costruisca un rapporto nuovo tra regista e attore. Cerco quindi, da spettatore, di leggere in filigrana che tipo di relazioni ci sono state alla base della costruzione di uno spettacolo. È la cosa che mi interessa di più. Un altro tipo di teatro che mi ha interessato in questi ultimi anni è quello di narrazione...
…che ha figliato molti autori. Anche quello testimonianza e segno della forte necessità di teatro?
Sicuramente. Perché la gente ha bisogno che, sostanzialmente, gli si riconsegni una storia. Il teatro di narrazione, avendo una modalità frontale di costruzione, fatta cioè per le persone presenti in sala, mi ha interessato proprio perché ha rimesso al centro il problema della necessità del pubblico. Il successo che ha avuto è indicativo di quanto sia necessario reinventarsi un rapporto vivo con lo spettatore.
In questo senso l’attore allora ha una responsabilità nei riguardi dello spettatore, del lavoro che fa…
Enorme direi. La responsabilità ce l’ha a prescindere che lui lo sappia o che se ne interessi, perché quando sei in scena funzioni come un megafono culturale, che tu lo voglia o no. Quando si va in scena si è sempre nudi, e si vede tutto delle persone che lavorano. Allo stesso modo si determina sempre un condizionamento, una manipolazione verso lo spettatore che ti sta davanti. A quel punto le strade sono due: o decidi di fregartene e la butti su un fatto semplicemente seduttivo carrieristico, esercitando la maggiore fascinazione possibile; oppure cerchi di farti carico dell’importanza del ruolo culturale che inevitabilmente hai, e cerchi di usarla per far sì che quando si esce dal teatro l’esperienza fatta non sia stata solo di tipo digestivo, ma che cambi davvero qualche cosa per le persone che l’hanno condivisa.
Quindi, sia per gli attori che per gli spettatori, perché è sempre un’esperienza che necessita dei due…
L’obiettivo dovrebbe sempre essere quello. Personalmente, oltre a cercare di capire me stesso un po’ di più attraverso il lavoro, cerco di rendermi più chiaro possibile il senso anche politico che voglio dare a ciò che faccio, per poi consegnarlo allo spettatore affinché ne faccia quello che crede. Uno degli obiettivi che mi prefiggo, quando entro in scena e anche quando lavoro durante le prove, è quello di essere un veicolo di entusiasmo.
La parola significa: una forza che si mette dentro qualcuno…
Esatto! L’obiettivo è toccare le persone con un’energia che le faccia uscire dalla sala frastornate, a volte, ma almeno condotte a metabolizzare criticamente quello che è successo, però non come se avessero visto una conferenza. Bisogna, nell’ordine, avere chiaro quello che si vuol dire, e poi consegnarlo al pubblico dimenticandosi che lo si vuol dire, cioè pensare soltanto ad investire lo spettatore di questo volume di senso con la maggiore forza possibile. L’entusiasmo, secondo me, è la strada che attraverso il teatro può cambiare il mondo. Quando ci riesce, si avverte con grande chiarezza che nessun altro mezzo può eguagliare in questo il teatro.
Non pensi possa farlo anche il cinema?
Il cinema è un linguaggio che pensa per target di pubblico molto ampi, non in funzione delle singole persone, come può fare invece il teatro se fa leva sulle potenzialità del rapporto in presenza. Se ti metti su questa strada, infatti, quando sei di fronte alle persone ti tocca curarle un po’ una ad una, per quello che individualmente sono.
Ecco che viene fuori il linguaggio medico. Da quello che dici emerge il senso pregnante che dai al valore del teatro, dell’attore. Quindi si potrebbe dire che il teatro può aiutare a migliorare l’uomo?
Penso di sì. Ho un punto di vista molto materialista sul senso, per esempio, dell’arte. Non credo tanto che l’arte debba solo perseguire il bello, e creare bellezza. Credo che in primis l’arte debba essere utile, e lo è se riesce a indicare delle questioni, delle domande, dei problemi, a volte anche delle ipotesi di risposte da dare alle persone.
Quindi non solo il bello, ma anche il vero?
Il teatro deve essere anzitutto verità, perseguita anche col più grande degli artifici, ma verità. Chi poi guarda e ascolta deve sentire che si tende a volergli dare qualche cosa, magari di misterioso, che lui stesso è chiamato ad interpretare, su cui deve esprimere la propria posizione. Per questo il teatro deve anche essere un posto che faccia paura, per quanto divertente – e, per carità, divertente non deve mai smettere di esserlo! – , un posto che faccia percepire delle forze inquietanti che si muovono: quelle che si agitano dentro ciascuno di noi, e di fronte alle quali, se si danno delle risposte, si riesce a vivere meglio.
Indaghi anche te stesso nell’indagare la vita degli altri? Facendo questo mestiere hai scoperto delle cose di te stesso?
Ho deciso di fare questo mestiere perché sentivo che era la cosa che mi poteva rendere felice. E credo che l’unica vera felicità, l’unico senso che uno può dare a quello che fa nella propria vita, sia conoscere sempre un po’ meglio se stesso. Che significa, poi, conoscere meglio la realtà. La realtà è un’interpretazione che tu dai delle cose. Il modo in cui le cose funzionano fuori da te è un po’ lo specchio di come funzionano dentro di te. Quindi questo lavoro lo affronto come una scoperta continua, una ricerca di cosa sono io. Da questo punto di vista il lavoro dell’attore è divertente perché, fatto in questa maniera, i personaggi che interpreti non diventano delle maschere dietro le quali ti celi, ma delle occasioni attraverso le quali ti sveli agli altri e a te stesso.
So che sei anche un appassionato di arte contemporanea, soprattutto delle arti visive…
Avendo lavorato con l’università di Venezia negli ultimi tre anni, ho cominciato a frequentare le Biennali d’Arte. Prima avevo sempre sottovalutato le potenzialità di ricerca del mio occhio verso le arti visive. Ho scoperto che l’arte contemporanea contiene messaggi forti. C’è anche molta cialtroneria, come ovunque, però quei linguaggi che hanno una componente metalinguistica forte e chiara e non contrabbandata, mi toccano, mi sollecitano. Questo succede con ogni specifico linguistico, a teatro, nell’arte e nel cinema.
Cosa non ti piace del cinema attuale?
Non mi piace il cinema che somiglia troppo alla tv, e anche quel teatro che finisce per somigliare troppo ad altri mezzi. Perché non mi piace la confusione tra i linguaggi. Mi piace piuttosto la messa a confronto, gli spettacoli dove di queste cose si discuta, si parli, confrontando i mezzi. Ho adorato per esempio “Lolita” di Ronconi, uno spettacolo dove era evidente e chiaro il rapporto tra il teatro e il cinema. Dove invece i modelli si sovrappongono e si sporcano trovo ci sia poca onestà.
C’è una frase di un grande maestro dimenticato, Orazio Costa, che amo sempre citare: “Amate il cinema, amate il teatro. Non amate voi stessi né al cinema, né a teatro”. Cosa pensi di questa verità?
Tutto il bene possibile. Perché va in controtendenza anche col modo di porsi degli stessi attori verso questo mestiere. Spesso, purtroppo, in generale, l’idea che si ha di noi è quella di esibizionisti, di feticisti di sé stessi. Costa ha pagato cara la sua visione dell’attore. È uno dei grandi pedagoghi, forse l’unico, vero pedagogo teatrale italiano, e forse proprio per questo è stato un po’ dimenticato e sottovalutato come artista. Lui diceva una cosa giustissima: per fare questo mestiere bisogna mettersi in testa che ci si fa carico di una certa responsabilità culturale. Quindi lo si dovrebbe fare se si ha la necessità di comunicare in questo modo con le persone. Se invece si desidera soltanto essere additati per lo status sociale, per il riconoscimento di essere proiettato su uno schermo o per essere al centro nello schieramento degli applausi, per l’ebbrezza di una certa popolarità, allora è un’altra cosa. E se ci si mette su quella barca si è destinati a diventare un po’ degli squaletti, perché di attori così ne proliferano a iosa. La nostra memoria è piena di attori che magari segnano qualche anno del cinema e del teatro e poi scompaiono sostituiti da altri piccoli fenomeni del genere. È giusto e sano quello che dice Costa: bisogna amare ciò che si fa, cioè crederci come a qualcosa che ti fa crescere, e attraverso la quale puoi dare tu un servizio agli altri.
Lui diceva anche che bisogna arrivare a dimenticare se stessi. Forse la cosa più difficile per un attore…
In lui tutto questo era legato in maniera sublime ad una dimensione religiosa molto personale, e aliena da me. Però il suo punto di vista lo trovo di una grande potenza di senso e di una legittimità assoluta. Bisognerebbe veramente fare questo lavoro come se ci si facesse carico di una missione. A quel punto il protagonista della vita diventa la missione stessa, non il ritorno di immagine che questo mestiere ti dà.
Tra i complimenti ricevuti ne ricordi uno che ti ha fatto particolarmente piacere?
Una parola che mi sento dire spesso dopo uno spettacolo da parte del pubblico è “entusiasmante”. Per me non è casuale, perché do alle parole un’importanza decisiva. Quindi, che questa parola ricorra spesso è per noi gratificante. Ad assistere al “Progetto Koltes” c’erano degli amici che vengono sempre a vedere i miei spettacoli. Ma dopo questo erano molto pensosi, avevo paura che non avessero apprezzato il lavoro. Poi uno di loro mi ha mandato un sms che diceva: “Un amico è quello che ti porta anche in posti in cui non andresti da solo”. È un’espressione molto bella. È quello che mi augurerei sempre di riuscire a fare con tutti.