Italiano, ha lavorato a New York e Londra e porta con se la visione della regia incentrata sull’attore e un occhio di riguardo per il pubblico. L’intervista a Matteo Tarasco, che ci racconta la sua ‘Signora delle Camelie’ e lancia proposte interessanti per un auspicato rinnovamento del settore.
E’ in scena questi giorni al Teatro Eliseo di Roma con un adattamento e regia del celebre romanzo di Dumas “La Signora delle Camelie”, protagonista l’attrice Marianella Bargilli. Stiamo parlando di Matteo Tarasco, amante dei classici, uomo di esperienza e cultura che prova ad ‘implementare’ le sue competenze professionali, quelle che città come New York e Londra gli hanno regalato.
Da dove nasce la scelta di lavorare al testo ‘La signora delle Camelie’, curandone adattamento e regia?
Qualche tempo fa in un incontro con Geppy Gleijeses (che è produttore dello spettacolo) abbiamo immaginato di portare in scena questo grande classico, considerato e tradotto a teatro in molte forme. Ricordiamo che anche Giuseppe Verdi ne ha tratto un’opera come La Traviata. Abbiamo cercato di capire il perché raccontare oggi questa storia, come si potrebbe collocare in un contesto contemporaneo. La risposta è stata alla fine semplice, gli argomenti che tratta sono ancestrali, toccano le istanze profonde dell’umano. I sentimenti non hanno epoca, sono assoluti.
Per l’adattamento ho considerato quello che fosse realmente necessario mantenere, sicuramente gli ostacoli evidenti (ad esempio l’arrivo del padre che blocca lo sviluppo della storia) e quelli occulti (l’amica di Margherita). Quello che non va dimenticato è che questo è un romanzo di formazione, insegna tanto ad Armando a diventare uomo quanto a Margherita di godere dell’ultimo scampolo di bellezza, quello spirituale, dell’anima, di fronte al sentimento. I personaggi sui quali la storia ruota sono quattro, il resto è superfluo. Così come l’impianto scenico è svuotato, non vuoto ma svuotato del non necessario. La scena è caratterizzata da un enorme utero rosso di velluto e pochi elementi di appoggio che caratterizzano gli ambienti. E’ l’attore l’effetto speciale, perché la mia attenzione va allo spettatore, che per me non è un semplice utente ma riveste una sacralità che deve mantenere intatta nella sua identità.
Come mai la scelta della protagonista ne ‘La signora delle Camelie’ è ricaduta sulla Bargilli?
Perché lei ha un percorso attoriale che ho trovato interessante. Ha ricoperto anche ruoli maschili, come in una messa in scena di un’opera di Wilde. Inoltre è stata interprete in diverse commedie napoletane, pur non essendo partenopea. Oltre questo profilo, è un’attrice che nel lavoro parte dal corpo, crea costantemente e compie azioni al fine di trovare i sentimenti. E’ questo l’approccio che cerco in un attore. Amo gli attori che non fanno domande, ma non perché l’attore non debba avere delle considerazioni. Non deve avere un approccio psicologico bensì fisico al lavoro. Anche la parola è un’azione fisica. Oltre questo, il lavoro tra attore e regista è di condivisione. Con Marianella abbiamo lavorato come i sarti di un tempo, quando confezionavano abiti su misura. Ad ogni prova, abbiamo dato ai personaggi qualcosa di nostro in quanto esseri umani. Credo nell’importanza dello spazio e delle possibilità date all’attore nel costruire il personaggio, creando un’opera in cui riflettersi.
L'importanza di proporre un testo classico oggi a teatro, quanta aderenza c'è con una realtà sociale che cambia costantemente?
Immaginiamo un albero. Per far crescere rami rigogliosi e di conseguenza far sbocciare fiori e raccogliere frutti, bisogno coltivare la radici. Altrimenti i rami rimangono sterili. Sono le radici il fulcro. Non nego il valore della ricerca ma sono più per un teatro di ritrovamento. Il teatro deve poter far questo, altrimenti si rischia di seguire il nuovo senza le basi necessarie e la conseguenza potrebbe essere l’ignoranza della società. Il teatro non deve dare soluzioni ma esporre i problemi da diversi punti di vista. Inoltre non si focalizza unicamente nella visione dello spettacolo ma inizia prima. Inizia dal momento in cui si decide di uscire di casa, prendere la macchina, cercare parcheggio, decidere di condividere lo stesso ambiente di tante persone, gomito a gomito. E’ una scelta che va oltre il banale ‘mi piace’ dato dai social ad esempio, è la volontà di comprendere, una volontà che non si limita a una volta sola ma è per sempre.
Cosa ha portato con se dall'esperienza newyorkese e cosa ha innestato nel nostro teatro?
Noi non abbiamo il rispetto reciproco del lavoro, cosa che invece nel teatro americano e inglese ho riscontrato. Impongono regole ferree, sembra una contraddizione eppure accade per quanto riguarda i rapporti umani. Il rispetto , l’idea di valutare, gli attori non sono strumenti ma sono partecipi alla creazione. Sicuramente quest’esperienza mi ha insegnato il pensiero della condivisione. E l’attore che è chiamato a creare con il regista, ha indubbiamente più stimoli e produce di più. Noi siamo il paese delle eccellenze ma in altri paesi quelli molto bravi sono in numero elevato. Espatriamo genialità, ma sarebbe interessante che anche noi innalzassimo la media nazionale con un numero maggiore di attori molto bravi invece di rimanere con i geni (spesso sconosciuti).
Di cosa avrebbe bisogno oggi il teatro italiano, quali tematiche da affrontare mancano (se pensa che ci sia una mancanza)?
Da un punto di vista fiscale, una maggiore agevolazione per gli investitori privati nel settore (in America ad esempio, vengono detratti i costi al 91%, ipotizziamo un investimento di 100 dollari, 91 dollari vengono restituiti) oppure prendere esempio dal sistema inglese che di default fa versare una quota della National Lottery nel fondo cultura. Sarebbe necessario investire nella nuova drammaturgia, perché bisogna tracciare i contorni di questa nuova società, fatta di pelle e di storie diverse. E poi sarebbe il caso di inserire il teatro nel curriculum scolastico. Un bambino di sei anni che vive in Arkansas studia teatro a scuola perché è inserito nel suo percorso formativo. In Italia, no.
Impegni futuri?
Un’anticipazione sulla prossima stagione, curerò la regia de I Fratelli Karamazov con Glauco Mauri, prodotto dalla Compagnia Mauri in collaborazione con il Teatro Nazionale di Firenze.
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