Teatro

Paolo Poli, il suo Novecento nei Sillabari di Parise

Paolo Poli, il suo Novecento nei Sillabari di Parise

Impeccabile nel suo completo in tweed chiaro, calzoni scuri, camicia bianca e papillon, Paolo Poli mi riceve nel suo camerino e mi fa accomodare sul divanetto rosso mattone. Siamo al Teatro Carcano di Milano dove il celebre attore toscano presenta Sillabari, due tempi tratti da racconti di Goffredo Parise, qui in scena fino all’1 febbraio.
Paolo Poli, nelle vesti di regista, offre un delicato affresco di tempi passati, dall’alto dei suoi 80 anni vissuti sotto i riflettori, sempre all’insegna della cultura e del buon gusto ma anche di una sconcertante sincerità. La sua voce è musicale, ironica, cambia spesso tono per rendere al meglio ogni aspetto dei suoi dialoghi, lo sguardo ammicca e ci apre il vaso di Pandora dei suoi ricordi.


Come mai è stato scritto che lei compiva 100 anni?
L’ho detto io. Sì, perché centenario suona bene, è più paradossale. Io sono dell’epoca di Carmelo Bene. Era un secolo, il Novecento, in cui l’emblematica era la definizione di Ionesco, il paradosso che diventava quotidiano.

Ormai siamo andati oltre…
Sì, perché prendete un circolo, accarezzatelo e diventerà un circolo vizioso, questo era Ionesco. E questo l’avevano capito anche i dittatori, che si esprimevano in maniera enfatica ma semplice, mentre Dannunzio era troppo difficile per le folle. Mussolini parlava all’infinito, come i negri: credere, obbedire, combattere. Capito? Sì buana Eh sì, sapeva tenere… Io sono nato sotto un cavaliere, speravo di morire non sotto un cavaliere con mamma Rosa. Capisce, anche l’altra era Rosa.

Beh, in compenso ne ha viste tante!
Sì, ne ho viste tante. Il mio contemporaneo Goffredo Parise si rifa sempre alla metà del secolo perché è quella emblematica: è cambiata in un attimo l’etica, coi nomi, la moda, tutto.

A quei tempi la gente era contenta o spaventata da quei cambiamenti?
Ma sai, c’è un po’ un misto di tutto. E’ come nell’amore: c’è l’amicizia, l’interesse, l’affetto o l’abitudine, se no non durerebbero i matrimoni, come non durano ora. Già due anni son tanti, eh. Insomma, sono stato fortunato di vivere in un secolo così battagliato. Certo non rimpiango Hitler e Mussolini, però nel frattempo si vedevano anche altre cose, eh. Anche sotto il limitare degli eventi più esteriori c’era un fluttuare segreto. Già il secolo cominciava coi sogni di Freud, col dubbio di Pirandello, lo slancio vitale del Bresson o l’automobile di Marinetti, l’aeroplano di Dannunzio

E la luce elettrica?
Quella è di fine ‘800, sì. Ma: il crollo del campanile di Venezia, nel 1908. Dice: ‘Ah, siamo gli ultimi, tutto crolla, si muore, che gioia’. Il terremoto di Messina, nel ’09. E poi invece siamo i primi, perché avevamo i futuristi. Quindi c’erano sollecitazioni che venivano da mille parti.

Tornando a oggi, questo nuovo secolo e millennio forse è cominciato mica tanto bene ma potrebbe anche migliorare, no?
Si sa! Nel Medio Evo di cui prima si diceva tanto male, adesso si scopre che sì, magari non c’era il sifone di Torricelli, ci voleva la carrucola per tirare su l’acqua dal pozzo. Però, era abbastanza pulita, specie dai frati e dalle monache; stavano attenti, col bambino abortito, capisci? E poi i monaci facevano il bagno una volta la settimana, acqua fredda i giovani, scaldata i vecchi. Avevano il cesso col collettore centrale, sedevano dandosi le spalle, mentre i romani, addirittura, conversano, col collettore centrale. Ora la merda è nebulizzata nell’aria…

Ricorda 'Il fascino discreto della borghesia' di Luis Buñuel, con l’elegante tavolo da pranzo…?
Sì, che cagavano a tavola. E Milena Vucotic era la camerierina che offriva la carta igienica. E, quando andavano a mangiare al cesso, ‘Occupato!’ e s’ingozzavano dell’ultimo boccone. Perché mangiare era una cosa vergognosa, invece cagare… Bravissimi, rovesciavano il calzino. Anche il film ‘Il cane andaluso’ dove il cane non si vede: quello viene rammentato perché non c’è. Così si meravigliava Moravia, che a Parma non c’è la Certosa e per quello l’ultimo titolo da mettere era ‘La Certosa di Parma’, perché manca. Come ‘L’Isola che non c’è’ di Peter Pan.

A teatro questi paradossi sono possibili?
C’è stato Pirandello, coi personaggi che vanno a cercar l’autore. Proprio bella. Credo che lui andò da Dario Nicodemi, autore non eccelso ma grande praticante, che era stato segretario di Réjane, un’attrice francese che ha fatto tutto il repertorio tradizionale, anche quello modernissimo di Antoine. E allora Marco Praga, queste persone così, andavano ad abbeverarsi a Parigi e poi traducevano in italiano. Invece ne ‘La Parigina’ di Becque facevano ‘Il più felice dei tre’, che era il marito becco che non s’accorgeva. La Duse era straordinaria in quello perché quando, nel primo atto mi pare, torna di fuori e il bambino le corre incontro, lei fa per baciarlo ma s’accorge che con questa bocca aveva peccato… E allora si pulisce col fazzoletto la bocca e, per non baciare il bambino, si copre. Era straordinaria in questo, lei aveva fatto il naturalismo anche nella ‘Signora delle camelie’. Arrivava in scena e scalciava, buttava via le scarpe come una donnaccia. Mentre nel film Greta Garbo, il massimo della volgarità, suonava il pianoforte, la Duse si buttava di scoppio sul divano, tutta sdraiata, si scioglieva i capelli e se li asciugava a un caminetto dipinto.

Perché lei ama costellare i suoi spettacoli con canzonette e balletti?
L’uomo della strada distingue le canzonette che ricordano un periodo: è per spiegare. Ho messo anche la voce della radio che dice ‘Il generalissimo Franco…’ per far capire dove siamo. Vedi, ho messo Cielito lindo e da questo bel cielo sono cadute anche le bombe di Guernica, capito? Non tutti lo sanno. Sai, oggi le macchine, come i computer, aiutano ma anche impigriscono. La gente, a casa, schiaccia un bottone e vede dodici ballerine fatte col computer. Io penso al pubblico seduto sui velluti delle poltrone mentre faccio questi monologhi. E’ faticosissimo. Non tutti possono fare i monologhi, che sono difficili. Anche i nuovi comici urlano. Io faccio anche due minuti e mezzo ma non si vede nulla: si vede una persona che ricorda la sua giovinezza e poco più.

Balli e canti rallegrano e chiariscono, ma cambia tanti abiti!
Sì, arrivo con un cappello, poi arrivo con una piuma e anche quello aiuta perché le scenografie, che io volutamente non ho fatto realistiche, riportano all’epoca. Non c’è un salotto o una camera da letto, quello lo fa la televisione, dove aprono il frigorifero e mangiano in continuazione. In teatro la parola ha perduto molti colpi. In Joyce ci sono quattro persone che parlano e basta, ma oggi la gente vuol vedere, sentire. Io ricordo: ero uno dei primi e venivo sgridato perché mettevo la musica di sottofondo. Anche Strehler, quando aveva un’attrice meno brava, magari imposta da qualche persona importante, gli metteva una tal musica sotto che non si sentiva nulla e si andava avanti molto meglio. Anche perché il mio Parise parla sempre di bambini e allora io devo far vedere degli uomini di una certa età che ricordano l’infanzia. Non posso far vedere i bambini veri, capisci?

Dei tantissimi spettacoli creati dalla sua mente, ne ricorda qualcuno che le piacerebbe rifare?
No, ma solo perché io li ho usati molto, li ho fatti molto, perché l’offerta è lì, è artigianato, li ho fatti con le mie mani, su di me e via. Nessuno avrebbe impiegato del denaro per me, nel ’60, quando ho cominciato a fare Compagnia regolare. Dai 20 ai 30 anni ho fatto varie cose, nello spettacolo.

Anche televisione, vero?
Sì, certo, ma ho fatto anche il cinema.

La televisione ancora in bianco e nero…
Sì, come Greta Garbo, bianco e nero. Poi ho fatto il costumista, tante cose per sopravvivere, i fumetti, che bisognava sempre tenere la bocca semiaperta che poi usciva la scritta, capito?

Intende i fotoromanzi?
Sì e sfruttavo una bellezza generica ma un po’ effeminata che non andava in quegli anni. Al cinema c’era Maurizio Arena, il principe fusto, ‘Poveri ma belli’, dove le donne mostravano seni generosi, i maschi toraci a tutta prova. E quindi io ero diverso, facevo sempre il secondo uomo: ne ‘Le due gemelle’ c’era la prima coppia di due belli mentre io, il fidanzato zoppo, stavo con la cieca. Alla fine si andava dentro Santa Maria della Pace e c’era il dottore: ‘Faccia vedere? Ah che begli occhi, con una piccola operazione io la guarisco dalla cecità’. Dice al ragazzo:’ E questa gamba? Eh, basta un nulla, con un taglietto…’. E alla fine ci si sposava tutti e quattro e anche lo zoppo e la cieca avevano ripreso la normalità.

Altri tempi, ma…
Cohen, sei ebrea?

Sì, certo.
Che gioia. A Firenze tutti i miei compagni di scuola erano Levi, Cohen. Allora c’era un vescovo molto buono, Elia Dalla Costa e mio padre che era carabiniere prese tutti i miei compagni e s’andò all’Arcivescovado, tutti sbattezzati indietro nei registri. Ne ho perduti solo un paio, di quei compagni.

Ah, bene!
Siccome in Italia nulla funziona, neanche il male, allora ecco. Gli ebrei andavano difesi perché non avevano fatto nulla di male. Tra i miei collaboratori sai quanti ce n’è? Jacqueline Perrotin, che è turca, lei si salvò perché sua mamma aveva un passaporto turco e allora montarono su un treno per Istanbul. Hanno bevuto l’acqua del cesso e basta, poi si sono levate due anelli e con una scatola di sardine sono arrivate a Istanbul.

E poi?
Qui poi Jacqueline sposò il mago Zurlì.

Ah, Cino Trotorella!
E il figlio s’è chiamato Davide, perché è la madre che comanda tra gli ebrei. Anche la mamma di Luzzati era bravissima, è lei che aveva studiato pittura, Emanuele lo avevano buttato fuori dalle scuole nel ’38, per le leggi razziali. Però diceva: ‘E’ stata la mia fortuna, non ho perso tempo!’. Disse ‘Sai, ho prese ‘ste lezioni di pittura dal cognato di Moravia, Marco Previati, marito dell’Adriana Pinkerland, direttore dell’Accademia di pittura di Firenze e facevano questi vasini di fiori’. Emanuele Luzzati era uno che non perdeva tempo, sapeva quello che voleva e la mamma faceva col crochet la testina e le manine e con pezzi di stoffe faceva i pupazzi.

Quindi la fantasia sfrenata di Emanale Luzzati è merito dalla madre?
Sì sì, della mamma. Anche moribonda, piegata in due, lavorava. Se vedi i quadri giovanili di lei t’incanta la sua mano. Il ragazzo è sempre stato con la mamma, un angelo era. Per le scene volevo un salotto e ho visto Palazzo Riccardi, la prefettura di Firenze. Ma, con le forbici, taglio un paio di colonne qui, due colonne là, ti piace? Chi la riconosce più, messa di sbieco. Poi in quelle statue io ci metto l’acqua che esce dalla bocca di un cane, una fontana va bene. Dietro ‘sti archi ho fatto il cielo blu, che gli abiti bianchi delle suorine vengono fuori bene, coi muri a mattoncini. E lui mi diceva ‘Non farmelo vedere’. Com’era carino, Emanuele.

Questo però mi fa pensare a Dario Fo, che disegnava, recitava, scriveva, dipingeva…
Certo, ma perché noi non abbiamo autori teatrali, non ci sta né Molière né Shakespeare né Calderon: noi abbiamo gli interpreti, abbiamo i Pulcinelli e Dario Fo è l’ultimo Pulcinella italiano. Giustamente è stato riconosciuto e premiato, lassù che sono civili. Mentre da noi avrebbero dato il Nobel a uno più accademico, più giusto nell’aggettivo. La prima parola che mi disse, Dario, quando ero appena arrivato a Milano, mi disse ‘Paolo, allegher, che il büs del cü l’è neger’. Ma carino, già sfatando subito, è stato di grande aiuto. E poi m’ha detto: ‘Non andare a far l’attore con Tizio e con Caio. La gente confonde. Fai le tue robe e basta’.

Ha seguito il suo consiglio?
Sì.

Ha vissuto una bella infanzia?
Mia mamma era come Jean Jacques Roussoeau e diceva: ‘Il bambino è giusto, la società è sbagliata’. E’ tanto, quello, perché io sono stato amato dai genitori per come ero, effeminato. Mentre le sorelle già storcevano il naso perché erano vissute sotto il fascismo e hanno sempre seguito il carro del vincitore.

A proposito, che pensa di Lucia Poli?
E’ mia figlia: quando io avevo 20 anni lei ne aveva 10, 12 e anche mio fratello, il fisico, ne aveva 8, o 9. Li ho fatto crescere.

Ma vede a teatro Lucia?
Sì, io la vedo sempre perché è mio figlio. Lei preferisce lavorare da sé perché è d’ingegno virile. Ognuno fa da sé, però quando si parla si diventa professoresse tutte e due. Io ho insegnato un anno solo, lei otto e ci si rifa alla mia mamma, quando faceva il dettato. Che ridere.

Eravate in tanti?
Sei fratelli, tre maschi e tre femmine. E per forza, non c’erano altri svaghi… Poi, sai, i miei genitori erano della fine dell’Ottocento, laici per forza, perché l’Italia era appena fatta. La mia mamma aveva un’adorazione per Anita Garibaldi e la portai a vedere un film con la Magnani, abbastanza mediocre, in cui Renzo Ricci faceva Garibaldi. E lei alla fine: ‘Si esce, si va al bar, si beve un cappuccino, si rientra e si rivede’. Il film preferito da mia madre era ‘Suor Letizia’, con la Magnani che è una monaca. Anche ‘Bellissima’, pianse tanto. Ma quelli troppo intellettuali no, lei era dell’epoca del cinema di consumo, del baraccone. Io mi ricordo di aver visto ‘La carne e il diavolo’ con Greta Garbo, con lei e mia zia e quando Greta Garbo disse: ‘Dammi una sigaretta’, in tutte le lingue l’ha detto, con la voce sua, capito, ‘Garbo talks…’ saltarono sulla sedia!

Che significa che parlava?
Era così, anche Chaplin si sentiva quando cantava ‘Titina ma titina..’ con la propria voce e poi basta, era solo mimo. Cantava solo la canzone perché sa cosa costava il disco che andava insieme alle boccacce? Infatti io ho visto ‘Alleluja’, di King Vidor credo, con tutti i cori dei negri sfalsati e i negri anche tinti, perché i negri non potevano ancora lavorare. C’era molto razzismo, eh?

Questo farebbe pensare che, quando oggi ci si scandalizza per il ritorno di razzismo, di fatto l’italiano lo è davvero?
Siamo proprio pronti al fascismo, siamo proprio endemicamente preparati. Perché si diceva: per la fede ci sta il papa, per la politica c’è Mussolini. E Vitaliano Brancati, carino, diceva: ‘Noi, da giovani, avevamo come libera scelta fox-trot o valzer. E basta’.

Un po’ come adesso?
Sì, sì.

Eppure si dice che l’italiano è uomo libero, anarchico, creativo…
Sì, ma vent’anni di dittatura, all’inizio del secolo, che manda via tutti gli intellettuali, gli altri li mette al confino e poi da i posti di rilievo alle teste di cazzo, che comporta? Per cui io penso ancora a Bottai come a un miracolo: uno che riuscì a levare a tutte le suore e ai frati i vari avviamenti al cucito, al lavoro, ai cavatappi e fece la scuola media unica per tutti i bambini italiani. E il voto alle donne: mia mamma diceva che il voto alle donne ci vuole ma arrivò nel ’45, dopo la guerra, capito? Repubblica o monarchia, fu il primo referendum. E poi ci furono le elezioni e naturalmente vinse lo strascico: la democrazia cristiana che cos’era? Eh, il seguito: la musica del valzer che diventa un fox-trot. Berlusconi non è forse l’unico sovrano italiano, non ci vuole Gioberti per dire che il papa è l’unico sovrano italiano.

Tornando a Sillabari, continua il tour?
Questa è la 60° replica.

Allora vuole cambiare?
Al contrario, devo ancora rientrare nelle spese. Sai cosa costa questo spettacolo? Siamo una quindicina di persone. Poi c’è la sarta, l’unico uomo in compagnia. Noi donne siamo più intelligenti, ci hanno sempre tenute indietro e finalmente adesso abbiamo Rita Levi Montalcini. Pensa che con un uovo ci faceva la frittatina. S’è fatta la fame, durante la guerra… e dopo ancora di più. Per fortuna io avevo un compagno di scuola che suonava il violino e andava a suonare per gli americani e lo pagavano in scatolette e quindi m’ha nutrito a scatolette di corn beef. Piuttosto che niente… Black market, era la canzone di Marlène Dietrich: non era una bugia, era la realtà. Marlène ha fatto un bellissimo film con Billy Wilder, un altro grande ebreo, austriaco, tanto per cambiare, come Lubitch, ha fatto Scandalo internazionale in cui gli americani, durante l’occupazione di Berlino, trovano una troia che è lei, che vive di mercato nero e canta in un locale ‘Black market’. Senza voce, però sa vendere bene la canzone.

Progetti per il futuro?
Eh, questo lo chiedono tutti. Che vuoi, il mio futuro è sempre più corto.

Che importa, intanto ci saranno letture che appassionano, qualche nuovo testo?
Siccome ho preso la residenza a Firenze, ho degli obblighi con la Regione Toscana. E che, mi danno 40 euro? Ne ho spesi 50 ieri sera per pagare il conto al ristorante con un musicista mio amico. Però, tutto serve a tenere buoni i rapporti Poi se voglio un secondo spettacolo, voglio fare Favole però musicate da Ravel. Certo, io racconto una favola, quella del bambino che scopre che le bricioline gliele hanno mangiate gli uccelli e da sotto arriva ‘plin plin plun’.. Non è proprio musica trascinante, non è il Bolero, però sai, in un locale abbastanza piccolo, poco pubblico, mi arruffiano. Allora mi posso inventare il balletto: li vesto con le piume e gli faccio fare quelli che beccano. Poi devo fare i pupazzi per i sette fratelli perché non ci sono. Io posso fare l’orco.

Le fiabe più belle?
Sono quelle tradizionali, Andersen, Esopo, i fratelli Grimm, perché avevano ciucciato la tradizione del ‘700, quando venne la moda della conversazione, dell’intrattenimento. Una delle amiche più care di Voltaire era una signora cieca, ma intratteneva. Aveva una segretaria che gli leggeva e che aperse un altro salotto per fargli rabbia, ma era l’epoca in cui c’era una visione, c’era la conversazione. E poi nell’Ottocento c’era il fine dicitore, che aveva le frasi emblematiche che si dicevano poi a cena. Erano invitati apposta, facevano ridere, eh. In quell’epoca lì venne la moda e proprio la diffusione delle ‘Mille e una notte’, dove è sublimata la donna che si salva la vita raccontando storie col sistema delle matrioske, che non finiscono mai, una dentro l’altra. Sharazade è straordinaria. Ebbe un tale successo che subito fecero un’edizione francese porcellona, aggiungendo altri negri, altre trombate. E un’altra tutta castigata, con le giovinette.

Insomma, ti piacciono tutte?
Ma, le favole più belle sono di Perrault e Grimm. Di Grimm ce ne sono alcune spaventose, io le ho fatte tutte per la radio quando avevo 25 anni. Una grande attrice faceva tutte le mamme, le fate e io facevo i bambini (e imita diverse voci). Infine Luzzati m’ha fatto i pupazzetti e così posso andare dappertutto. Per due persone non si rischia nulla: se piove, non ci pagano, io chiudo la mia valigia con i pupazzetti e vado al ristorante vicino, va bene così.

Però questa sua vita è valsa la pena, no?
Ma sì, perché ci sono solo due cose belle nella vita: amore e morte. L’amore è ormai un po’ passato. Bene, venga la morte, che non è brutta. Se una ha fatto il mestiere che voleva, ha fatto le scelte che voleva, sta bene. Si sa che l’epoca condiziona, la società condiziona, ma l’individuo si salva sempre.

Cosa pensa degli Stati Uniti e del loro cambiamento epocale?
So’ contento, finalmente un negro!

Cioè?
Nel dopoguerra vidi Porgy and Bess e ci si fidanzò tutti coi negri. Allora May Britt si prese Sammy Davis Junior, a me ne toccò uno meno bello e senza occhio di vetro, che faceva chic, però una voce. C’era uno che voleva fare il tenore nell’Otello, allora lo portai a Firenze da Gino Bechi, grande baritono: guarda, disse, è più facile tingere di nero Mario del Monaco. Insomma, non si faceva mai l’amore per serbare il si bemolle, eh? Che ridere. Invece la vita va goduta. Io mi schiarii i capelli a colpi di luce, che ora son normali ma allora era simbolo di depravazione, come andare in giro a braccetto con un negro, io, la fata bionda svedese… Le sorelle mi tolsero il saluto.

Bei divertimento, però!
Sì, poi sono andato a Roma e poi a Milano per sfuggire dalle cittadine di provincia. Gli scemi dicono: ‘Cosa penserà di me?’ riferito ai vicini, io me ne sono sempre fregato. Se stavo a pensare a quello ero ancora lì.

Viaggi?
Pochi, da giovane non potevo ora fo fatica. La lettura ha sostituito i miei viaggi. Non ho mai visto la Russia ma ho letto Guerra e pace. Io le trovo anche qui, le persone nuove. Ho lavorato un pochino a Parigi e c’era Gina Lollobrigida che faceva la bella con Gerard Philippe, c’era Alida Valli, tanti altri. Bisogna lavorare quando viaggi, non fare il turista: se non dividi il pane, l’insulto, non vivi come in famiglia.

Libri preferiti?
Ho letto tutto Simenon. Arbasino ancora scrive. Nessuno ricorda più Moravia che ha scritto una bella lingua quando ancora vivevano i dialetti, che Mussolini contrastò. Fondazione Dante Alighieri, queste società così del cavolo, cercavano di correggere una lingua bella.

Dovevano costruire l’Italia unita?
Sì, non era finita e non è finita ancora, perché le uniche cose che funzionano qui sono il Vaticano e la mafia.