Teatro

Un poeta contadino - Dialogo con Mimmo Borrelli

Un poeta contadino - Dialogo con Mimmo Borrelli

Vincitore dell’edizione 2005 del Premio Riccione – massimo riconoscimento nazionale di drammaturgia contemporanea – il magnifico «’Nzularchia» è un testo scritto in una lingua torbida e immaginosa. Abbiamo incontrato l’autore Mimmo Borrelli, 29 anni, «forsennato nella sua ambiziosa loquacità da inferno, uno scrittore furibondo, fluviale, forte» – così lo ritrae la motivazione della giuria presieduta da Franco Quadri. Lo spettacolo, prodotto dal teatro stabile Mercadante, è stato rappresentato per la prima volta a Napoli nello scorso mese di marzo, sotto la regia di Carlo Cerciello, protagonisti Peppino Mazzotta, Nino Bruno e Pippo Cangiano. Borrelli, ha conquistato il Premio Riccione e non ha ancora trent’anni: che effetto le fa? Sono ancora nella fase del sogno; quando ricevetti la comunicazione del Premio ero così frastornato che dissi ai miei amici: «Ho vinto il Viareggio». Mi sembrava incredibile che questo giovane e sconosciuto artigiano di provincia fosse approdato ad un riconoscimento così alto. Può sembrare una banalità, ma per me il teatro è una necessità, una ragione totale di vita, non un mestiere; se dovessi farlo come semplice routine, preferirei zappare la terra. Ci racconti di questa prima messa in scena. Io nasco come attore e avevo scritto questo testo per interpretare Gaetano in prima persona, con una rappresentazione “sul posto”, coi luoghi originali e tutta la fisicità che emerge dalla parola. Ne parlai con Carlo Cerciello il quale aveva sviluppato un’idea differente: mi propose una lettura più distillata, metafisica, quasi interiore. Il testo che si separa dall’autore. Ho ritenuto interessante questa sfida e ho scelto di non intervenire in prima persona nella messa in scena, sapendo di poter confidare nel talento di Cerciello. La scelta degli attori? Ad un’ambientazione più astratta era necessario un attore meno “corporeo”, capace di trasferire l’inquietudine del testo sulla parola. La scelta è ricaduta su Peppino Mazzotta, che ha fatto un lavoro mostruoso in una lingua non sua: perché se questo testo si doveva separare dal luogo, dalla fonte, allora il protagonista non poteva essere napoletano; come d’altronde non sono napoletano io (a Torregaveta siamo un misto di sangue saraceno, ebreo; siamo altro rispetto a Napoli). Mazzotta ha afferrato in modo geniale le intenzioni della scrittura e si è impadronito del senso della regia: un lavoro strepitoso, che ha permesso di riprodurre con estrema precisione i risvolti introspettivi del testo. Nino Bruno e Pippo Cangiano si esprimono invece in un napoletano più “quotidiano”. Sì, mi è parsa molto efficace questa opposizione: Bruno e Cangiano, straordinari entrambi, erano la corporeità, e dunque il loro napoletano era più marcato; Mazzotta pareva appartenere a un’area linguistica appenninica, di tipo sannita, così evidenziando lo stesso divario esistente tra la psiche di Gaetano e la realtà. L’esito mi è parso eccellente; sono davvero soddisfatto. Come ha avvertito, da spettatore, la rivisitazione del suo testo? Rispetto alla matericità originaria della scrittura, questa messa in scena ha privilegiato una maggiore astrazione, una più ardita stilizzazione. Per questo anche i riferimenti alla terra originaria, Torregaveta, sono stati asciugati in ragione di una più intensa visionarietà. Ma è rimasto intatto il senso profondo, la malattia dello spirito: Piccirì è un personaggio ambiguo, nasce angelico, ma poi è un’anima marcia, il doppio diabolico del protagonista. L’acuta scelta di regia spinge Mazzotta ad eseguire un Gaetano inquieto, indagato nella psicologia e nella patologia. La parola è poetica, ricca, senza mai diventare gioco intellettuale. Qualcuno le avrà già detto che la sua scrittura ricorda Enzo Moscato. Sì, e nella parte iniziale ho fatto anche dei richiami espliciti alle sue prime opere «Pièce noir» e «Festa al celeste e nubile santuario». Nel mio lavoro credo che confluisca la tradizione meno solare e più inquieta del teatro napoletano: sono molto influenzato da certe chiuse di Eduardo e del teatro di Viviani, e perciò dallo stesso Moscato. Ma c’è una differenza naturale: la mia scrittura nasce dal basso, dalla melma, mentre Moscato è immateriale, apollineo, elegiaco. Nel testo si parla continuamente di umido, di acqua, questa condizione un po’ malata e viscosa che però sulla scena non compare. Sì, la regia di Cerciello ha lavorato anche per sottrazione. L’armadio oscuro della scena è stilizzato con questo nero avvolgente. La malattia allora muove dal gesto scenico dei personaggi, non essuda dall’ambiente. Il testo si è dunque liberato dell’autore, e questo è proprio dei classici. Alcune scelte si sono del tutto sovrapposte al mio lavoro d’immaginazione, arricchendo il testo in una direzione per me imprevista, che ho apprezzato molto: penso al sontuoso impianto di scenografia realizzato da Roberto Crea e alle musiche di Paolo Coletta, che accentuano l’ambientazione irreale e lo scavo interiore dei personaggi. Cosa sta preparando? A Benevento a settembre faremo «‘A sciàveca», il mio nuovo lavoro basato su un testo di tremila endecasillabi; assieme a Davide Iodice ne abbiamo ricavato uno studio che andrà “in anteprima” in forma di monologo. Io e Davide abbiamo fondato l’associazione culturale «Marina commedia – Società teatrale» e tenteremo di produrre anche da soli alcune cose nuove. Stiamo provando a racimolare soldi, tra benevolo mecenatismo e coraggioso sponsor. Cos’ha visto a teatro quest’anno? Mi ha molto colpito «Zingari», per la vitalità sinfonica e potente della scena. Di recente ho anche visto «Il sogno di Giruzziello» di Moscato, che sulla scena è sempre straordinario. La scena è affollata e sofisticata, poi arriva lui e sembra un’apparizione, con questa parola bellissima che è altro dalla materia. Mi ha commosso. Dove andrà prossimamente «’Nzularchia»? Nella prossima stagione sarà rappresentata a Roma al Teatro Valle, e poi a Ravenna; ma probabilmente la tournée sarà più ampia e includerà altre città. Poi forse ritorneremo anche a Napoli, perché non siamo riusciti a soddisfare tutte le richieste del pubblico.