Teatro

Quel male che non t'aspetti...

Quel male che non t'aspetti...

Al Teatro Ca' Foscari di Venezia l'attrice Paola Bigatto e docenti dell'ateneo a confronto sulla figura di Hannah Arendt.

Non solo spettacoli al Teatro Ca' Foscari di Venezia. E' davvero il caso di dirlo e ripeterlo ancora una volta.

La sala teatrale dell'ateneo veneziano si riempie giovedì mattina 26 gennaio di studenti e insegnanti delle scuole medie superiori della città per un incontro a metà strada tra teatro, riflessione etica e consapevolezza civile.

Sul palco Paola Bigatto, in scena con il suo monologo su Hannah Arendt, Bruna Bianchi, docente di storia contemporanea, e Isabella Adinolfi, studiosa di filosofia morale. A moderare e a provocare, al tempo stesso, Maria Ida Biggi, delegata alle attività teatrali e docente di storia del teatro. La conversazione procede con toni sommessi, le parole vengono cercate e pesate il più possibie, concreta e visibile è la sensazione che il dolore dell'olocausto non sia solo un fatto di memoria celebrativa.

"Nel realizzare una versione drammaturgica de La banalità del male  - esordisce la Bigatto - ho dovuto necessariamente immaginare i mille volti di carnefici e vittime che sfilano pagina dopo pagina nel libro della Arendt, non avrei potuto fare a meno di questa concretezza, avrei rischiato altrimenti di non comprendere quello che stavo facendo".

Questa concretezza sta tutta nell'atteggiamento controcorrente e coraggioso della filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, nel suo essersi  schierata per un'interpretazione dello sterminio nazista che non caricasse i singoli protagonisti, come poteva essere lo stesso Adolf Eichmann, il cui processo celebratosi a Gerusalemme, unico tra tutti quelli a carico di ex nazisti, la Arendt aveva seguito per conto di un giornale newyorkese, fino a farli diventare estensori di un male assoluto.

Demonizzare Eichmann, demonizzare il nazismo nel suo insieme significa rinunciare alla possibilità di comprendere e per quanto questo possa apparire inquietante è l'unica possibilità che abbiamo per imparare davvero dalla storia, da ciò che è accaduto prima di noi.

E' molto chiara su questo punto Isabella Adinolfi: la Arendt ha sentito fino in fondo l'impellenza di capire, anche se questo ha significato riconoscere ad Eichmann un'appartenenza al genere umano che il mondo intero, e in primo luogo le comunità ebraiche,  non era in grado di comprendere in quegli anni. Quale è stata dunque l'idea che ha  mosso tutta la riflessione di Hanna Arendt, anche quando, accanto ai folli membri delle SS ha avuto il coraggio di porre sul banco degli imputati i capi ebraici che, più o meno inconsapevolmente, non hanno saputo opporsi alle richieste dei tedeschi?

Lo spiega Bruna Bianchi, con opportuni riferimenti a Tolstoj, un autore sicuramente caro alla Arendt e mai troppo citato. Il punto centrale è che una disobbedienza civile è sempre possibile, la paura, la perdita delle proprie sicurezze, il meccanismo perverso e assurdo di cui ci sentiamo parte, non possono annullare del tutto la forza della disobbedienza. Il magma indistinto dell'assenza di idee e conseguentemente di responsabilità è forse il primo, se non l'unico e vero, responsabile delle peggiori atrocità della storia.

Non considerarsi colpevole, è questo che ripeterà ostinatamente al processo Eichmann, perché agli ordini non ci si può opporre, è solo un leitmotiv ripetuto e stanco, banale come per l'appunto il male che la filosofa tedesca ha posto al centro di tutta la sua speculazione. Se non ci fossero stati i tanti banali e grigi esecutori di ordini, come per l'appunto lo fu Eichmann, probabilmente il Male con la emme maiuscola di cui fu ideatore Hitler non avrebbe mai avuto modo di esistere.

E' questa la riflessione finale che la Bigatto consegna agli studenti presenti in sala, invitandoli a leggere e consultare le tante storie minori di uomini e donne capaci di disobbedire e salavre in tal modo migliaia e migliaia di ebrei in pericolo. E' la foresta dei giusti, dei tanti che hanno detto no, una semplice sillaba dalla forza rivoluzionaria.

"Una semplice parola, appena una sillaba, ma il teatro - chiosa Paola Bigatto - fa delle parole l'estensione privilegiata di sentimenti e azioni. Il teatro vive di parole, anche di un semplice no, ed è per questo che mettere al centro di un palcoscenico la memoria è sicuramente il modo migliore per tenerla viva."