Un lavoro, frutto di una riflessione sull'attuale situazione geopolitica siriana e sulle complesse condizioni di vita del suo popolo, carica di un ingombrante, quanto necessario, messaggio di testimonianza il cui destinatario, attraverso lo spettatore, diviene l'intera comunità internazionale.
L’indubbia nota di merito per un festival, che sia teatrale o non, portatore di innumerevoli polemiche o non, luogo dove spartirsi risorse in funzione delle ascendenze politiche e nepotistiche in genere o non, resta (ammesso che alla fine resti qualcosa) la speranza per uno spettatore di imbattersi in autori e compagnie che, cariche delle proprie esperienze internazionali, aggiungano, anche solo per un istante, qualcosa di nuovo allo stantio panorama culturale locale.
In quest’ottica, è da ritenersi imperdibile la messa in scena di Mentre aspettavo, l’opera di Omar Abusaada per il testo di Mohammad Al Attar che il Napoli Teatro Festival Italia 2016 ha portato in scena al Teatro Bellini.
Un lavoro, frutto della riflessione sull’attuale situazione geopolitica siriana e sulle complesse condizioni di vita del suo popolo, carica di un ingombrante, quanto necessario, messaggio di testimonianza il cui destinatario, attraverso lo spettatore, diviene l’intera comunità internazionale. Un interlocutore che nei prossimi mesi certamente non mancherà, vista la lunga tournée internazionale tra i maggiori festival teatrali europei (Festival d’Avignon, Zürcher Theater Spektakel, La Batie – Festival de Genève, Festival d’automne à Paris).
Attraverso il coma del giovane video-maker Taim, pestato selvaggiamente da chissà quale forza governativa o paramilitare che governa la porzione di città che in una notte qualsiasi si ritrova ad attraversare, e la condizione della propria famiglia, riunitasi intorno al suo capezzale, Abusaada inscena lo smarrimento di un intero popolo. Una metafora, architettata nella sovrapposizione di più flussi di coscienza, che si fa riflessione sullo stato in cui si trova ad essere il suo paese, «né vivo né morto, ma in una zona grigia di speranza e disperazione». Taim, che in scena incarna la propria coscienza, diviene partecipe osservatore delle speranze e dei drammi dei familiari che lo circondano ed al contempo, libero dalla materialità del proprio corpo che giace nel letto d’ospedale, si fa narratore extradiegetico descrivendo, ad esempio per mezzo di alcuni video-filmati prodotti dal suo cellulare, le prima fasi della pacifica rivolta popolare che ebbe origine in Siria nel 2011.
Ciò detto, pur riconoscendo la sincera necessità espressiva dell’autore ed i meriti interpretativi dell’intera compagnia si rileva, sin da subito, un’eccessiva elementarità del dramma inscenato, afferente principalmente ad una scrittura piatta e decisamente sommaria, priva di una adeguata caratterizzazione dei personaggi.
Sia dal punto di vista narrativo che sotto il profilo della mera messa in scena è evidente un eccessivo didascalismo. Così come gli inserti video (più che pertinenti dato il reale contributo che essi diedero al diffondersi delle cosiddette “primavere arabe”) anche le parti cantate/rappate portano a ricordare il teatro brechtiano e a credere che, nella migliore delle ipotesi, quella scarsa empatia, il senso di estraneità percepito, così come l’interloquire diretto al pubblico del protagonista, non siano che la rielaborazione di quel teatro epico di cui l’autore tedesco si fece interprete. Una forma comunicativa che, occorre ricordare, nacque e fu strutturata, non per il pubblico del teatro borghese, ma nella ferma volontà divulgativa dei principi marxisisti, rivolta alle masse operaie, prive in quel frangente temporale, di una coscienza di classe quanto di una guida politica.
Ne deriva che, seppur pregevole nell’intento, l’opera di Abusaada, così realizzata, non sortirà l’effetto comunicativo desiderato ma, molto probabilmente, desterà il solo sterile compiacimento politically correct del pubblico benpensante.