Psicosi delle 4.48 di Sara Kane è un testo dannatamente difficile da interpretare e mettere in scena sia per la difficoltà insita nel monologo fitto, fittissimo di disquisizioni, di dialoghi, di a parte, di confessioni, di ripetizioni ossessive riportati dalla voce monologante della protagonista, una giovane donna paziente psichiatrica che recalcitra perchè non vuole essere catalogata, sia per la scrittura drammaturgica che presenta un testo senza didascalie lasciando dunque carta bianca a chi deve fare scene e regia e all'interprete col rischio di interpretare troppo e soffocare il testo.
Psicosi delle 4.48 è andato in scena postumo dopo che Sara Kane si è tolta la vita impiccandosi coi lacci delle scarpe in un bagno del King College Hospital di Londra) anticipando quanto riportato nel dramma nel quale la protagonista annuncia alle 4.48 quando la disperazione mi farà visita mi impiccherò.
Così questo testo doloroso e bellissimo diventa ostico da affrontare anche per il critico che deve saper trovare il giusto equilibrio nella sua lettura tra biografismo e autonomia del dramma senza farne cioè esclusivamente la confessione di una sucida ma senza nemmeno rimuovere il suicidio della sua autrice (come viene fatto per esempio nelle note biografiche di Einaudi, che ha pubblicato tutto il suo teatro, che parlano di scomparsa e non di suicidio).
A differenza dei testi precedenti della drammaturga e attrice inglese Psicosi delle 4.48 è scevro di didascalie e indicazioni scenografiche consentendo per ogni messinscena l'allestimento di uno spettacolo a sè da quello del debutto londinese dove il monologo interpretato da numerosi attori e attrici diventa un testo corale, alla incarnazione con Micaela Esdra, per la regia di Lupinelli, che ne fa una novella Giovanna d'Arco rinchiusa in un centro di igiene mentale tutta dedita a una ecolalia autoreferente da matta.
L'allestimento che abbiamo avuto la fortuna di vedere al teatro dei Conciatori, rappresentato per la prima volta nell'ottobre del 2010 al teatro Argot di Roma, per la regia di Valentina Calvani si impone prima di tutto per la magnifica interpretazione di Elena Arvigo che si fa strada tra i meandri del testo che attraversa con la stessa semplicità con cui cammina a piedi scalzi su dei pezzi di specchio rotti che si rompono ulteriormente al suo passaggio.
La scena allestita in semplicità vede il palco ricoperto di uno strato di terriccio il cui odore inconfondibile accoglie il pubblico prima ancora che prenda posto in sala ospitando e semi nascondendo gli infidi pezzi di specchio alcuni dei quali l'attrice, a inizio spettacolo sposta come fossero fiche mentre manovra delle carte da gioco formato gigante.
Tra un uso accorto delle musiche che non sostengono mai l'emotività del testo ma vanno anzi di contrappasso e l'impiego dislocato delle luci (comprese quelle di alcuni lampadari posti sul terriccio) Arvigo interpreta il testo senza il sostegno di artificio teatrale alcuno, con la sola forza della sua presenza scenica e la sua capacità di restituire con il tono della voce ora l'io narrante ora i vai personaggi che interloquiscono con lei e dei quali il monologo riporta brani di dialogo con una glossa di sottile e sotterranea ironia che nasce dalla consapevolezza dell'ineluttabilità della morte che tanto vale anticipare...
Arvigo restituisce a Sarah Kane e alla protagonista della pièce la dignità di persona tutt'altro che matta in balia delle proprie farneticazioni, ma persona capace di intendere e volere e artefice del proprio destino anche con la scelta per taluni inconcepibile del suicidio che non è gesto avventato ma ferma e salda affermazione di sé (questo non è un mondo in cui ho voglia di vivere). La sfacciata consapevolezza del dolore di chi non ha amore e se lo inventa di chi in amore viene rifiutato di chi viene giudicato per il proprio aspetto il proprio comportamento il proprio orientamento sessuale in un confronto tra malessere della carne e apparenze borghesi, dove il disagio è lo scollamento tra copro e anima tra autopercezione del proprio io e quello alienato di un corpo che la norma vuole altrove o in altro modo.
Algida o tenera, indifesa o determinata, Elena Arvigo ci restituisce l'io narrante di Psicosi senza nessuna di quelle sovrastrutture che il personaggio nel testo rifugge e critica (e che tante interpreti non hanno saputo invece resistere alla tentazione di impiegare) incarnando con un atto di una poesia indescrivibile di
amore e di rispetto per il testo la donna che lo abita.
La sincerità e l'onestà intellettuale dell'interprete si vedono anche nel pudore con cui Arvigo si prende gli applausi finali prima perchè ancora dentro il personaggio poi perchè travolta dal calore e dall'entusiasmo di un pubblico estasiato e grato di avere visto sulla scena non un personaggio ma una persona.
E chi scrive, per Elena Arvigo ha solo una parola, anzi tre: vera, verissima, immensa.
Prosa
4:48 PSYCHOSIS
L'immensa bravura di Elena Arvigo
Visto il
07-06-2013
al
Dei Conciatori
di Roma
(RM)