7 furono i vizi capitali, 30 gli articoli della carta dei diritti dell’uomo, ed ora 6 sono i gradi del’innalzamento della temperatura terrestre che ci attenderebbe nei prossimi decenni. Ad un altro numero è consegnato il compito di fornire il titolo ed il canovaccio di un monologo di Giobbe Covatta, stavolta incentrato appunto sulle conseguenze catastrofiche di questa variazione le cui cause si rintracciano nell’uso dissennato delle risorse naturali da parte di quello che si è dimostrato, con ogni probabilità, uno degli abitanti meno adattivi al sistema ecologico apparsi sul globo terracqueo degli ultimi 4,5 miliardi di anni: l’uomo.
In quasi due ore di eccellente prova di scena, con una presenza che non lascia spazio a distrazioni, ed alternando la sua verve più classica di “paraboliere” con ciliegine di ironia politica e religiosa, a quella di divulgatore scientifico serio e faceto insieme, Giobbe Covatta riesce anche a dare immediata comprensione a problematiche legate a gas serra, ecosistemi, biosfera, mutamenti climatici ed albedo (e dato che il primo è già reale, e ci avviciniamo con rapidi passi al secondo grado di innalzamento della temperatura, non sarebbe sembrato fuori luogo perfino qualche accento intonato in modo ancora più serio).
Dal suo futuro situato nell’anno 2114, Giobbe legge giustamente il secolo passato sotto la luce che si accende su un paese ignorante ed effimero, e non profetizza perché appunto legge già le postume cronache dell’inevitabile fine autoimposta dalla razza umana, con una raffica di trovate e di battute che spaziano dai paradisi celesti a quelli (ormai ex) terrestri, attingendo da argomenti che conosce bene e che lo hanno reso testimonial acuto di Amref e Save the Children; e nelle mani degli uomini del nostro secolo, abbandonati ormai al solo proverbiale ingegno di cui riteniamo di essere dotati, immagina che tutto ciò produca invenzioni surreali e situazioni tragicomiche, con una punta geniale in cui si incrociano forse tutte le strade nel momento in cui immagina un nuovo muro, stavolta eretto nel verso latitudinale, in cui converge idealmente ogni incapacità umana, fisica e non, di gestire la sua esistenza/sopravvivenza.
Un trench rosso indossato con disinvoltura che contribuisce in qualche modo all’aspetto vaticinatorio, un mappamondo illuminato, alcuni oggetti in un cassettone, una presenza rarefatta della improbabilissima valletta Priscilla (Ugo Gangheri): basta poco allo spettacolo scritto insieme con Paola Catella, per assicurare una base solida che ha la capacità di alternare pensieri, sorrisi e risate, e per riflettere su come il nostro antropocentrismo abbia distorto il pensiero sulla natura che ci sta temporaneamente ospitando, e che probabilmente dopo essersi a stento accorta del nostro passaggio, è probabile che subito dopo impiegherà ben poco, a cancellarne le tracce.