Musical e varietà
A CHORUS LINE

A Chorus Line, semplicemente (il) musical

A Chorus Line
A Chorus Line

La semplicità drammaturgica del meccanismo del teatro nel teatro è l’elemento innovativo per cui, nel corso degli anni, A Chorus Line si è contraddistinto come “il re dei musical”.

La semplicità drammaturgica del meccanismo del teatro nel teatro è l’elemento innovativo per cui, nel corso degli anni, A Chorus Line si è contraddistinto come “il re dei musical”.

Lo show è nato dalla brillante idea del regista e coreografo Michael Bennett di raccogliere le confessioni di un gruppo di ballerini professionisti per oltre 30 ore di registrazioni audio, durante le quali ricordi, aneddoti, sogni, speranze, successi e disillusioni si rivelano ottimo materiale per il soggetto di un musical, che debutta allo Shubert Theatre di Broadway il 25 luglio 1975: una celebrazione, nel bene e nel male, dello show business e, in particolare, del teatro musicale.

Evergreen o 2.0?

L’atteggiamento di rispetto filologico dell’edizione originale dimostrato da Chiara Noschese nell’accostarsi alla realizzazione di un nuovo adattamento italiano – dopo le edizioni prodotte in passato dalla Compagnia della Rancia – non sembra essere riuscito a tradursi, sul palcoscenico, nell’originaria intenzione di realizzare una versione 2.0 dello spettacolo. Ma il carattere “evergreen” dello show non va considerato necessariamente un elemento penalizzante e alla regista va riconosciuto il merito di aver messo insieme un gruppo di performer che cercano di rispecchiare al meglio le singolari sfumature psicologiche di un’umanità di artisti variegata e complessa.


L’armonia della fila

Fabrizio Angelini ha riprodotto scrupolosamente le coreografie originali di Michael Bennett, che pur non rappresentando la componente prevalente dello show, restano comunque esemplari per la danza in stile musical. L’aspetto preponderante dello spettacolo è la recitazione, che si declina –attraverso l’interpretazione dei 19 performer protagonisti – nell’equilibrata alternanza tra caratterizzazioni psicologiche più approfondite e altre che rimangono sulla superficie.

Il pungente cinismo di Floriana Monici, nel ruolo di Sheila, cattura la scena, con esiti divertenti e a tratti ipnotizzanti, soprattutto nel momento della sua trionfale uscita di scena; Riccardo Sinisi stabilisce un buon punto di partenza nella costruzione di una caratterizzazione psicologica profonda e complessa come quella di Paul e nelle prossime settimane avrà tutto il tempo per condurre questo personaggio verso livelli d’introspezione ancora più efficaci; Giuseppe Verzicco, nel ruolo di Al, ha l’occasione di valorizzare le proprie potenzialità vocali; notevole, infine, lo spensierato disincanto di Pierluigi Lima (Richie).



Tecnicamente inattaccabili, seppure meno convincenti sotto il profilo delle istanze di cui i rispettivi personaggi si fanno portavoce, risultano Chiara Di Loreto (Diana) e Roberta Miolla (Cassie): la prima incarna una distaccata disillusione, magari opportuna, ma a tratti eccessiva e artificiosa; la seconda, nonostante un’invidiabile presenza scenica, non riesce a trasmettere al pubblico il bagaglio di esperienza di vita che caratterizza il personaggio e i suoi trascorsi personali con il regista Zach (Salvatore Palombi), probabilmente il personaggio che meglio esprime il lavoro svolto da Chiara Noschese con questo cast.

La scenografia e il disegno luci introducono il pubblico in un teatro di Broadway, innescando con immediatezza il meccanismo metateatrale alla base del musical.
L’evidente sincronismo dei performer sulle musiche di Marvin Hamlisch – eseguite dal vivo da alcuni musicisti, nascosti in buca e diretti da Andrea Calandrini – è spezzato da un disegno fonico non sempre efficace, che stenta a valorizzare le frequenze medio-basse, producendo una esagerata amplificazione di alcune singole voci o numeri corali.

Visto il 17-02-2019