Lirica
ACHILLE IN SCIRO

Il San Carlo di Napoli celebra il suo re

Il San Carlo di Napoli celebra il suo re

Il Teatro di San Carlo di Napoli venne inaugurato la sera del 4 novembre 1737. Il nome prescelto per il grandioso contenitore spettacolare era quello del sovrano che l’aveva fatto edificare, Carlo di Borbone, assurto al trono delle due Sicilie tre anni prima e destinato a ricevere la corona di Spagna nel 1759. La costruzione del San Carlo rispondeva non soltanto al desiderio di dotare la capitale del regno di un palcoscenico adeguato, ma anche e soprattutto a un’esigenza eminentemente politica, vale a dire l’autorappresentazione del potere attraverso la malia suasoria della musica. Per l’apertura venne scelto Achille in Sciro, libretto recente del massimo poeta drammatico del tempo, Pietro Metastasio, già intonato a Vienna da Antonio Caldara. Alle note provvide il maestro della cappella reale partenopea, Domenico Natale Sarro, autore oggi pressoché dimenticato ma all’epoca molto quotato, forse - potremmo aggiungere - più solido che raffinato, più energico che profondo. Allestita con grande sfarzo ed eseguita da cantanti di prima sfera, l’opera riscosse notevole successo per poi finire nel dimenticatoio come tanti lavori e capolavori di quell’epoca avida di novità e ferocemente immemore.
Nel 2007 la creazione di Sarro era stata oggetto di recupero integrale nell’ambito del trentatreesimo Festival della Valle d’Itria di Martina Franca. Oggi, invece, il San Carlo ne propone una selezione in occasione delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita di Carlo di Borbone. La locandina napoletana annuncia un’esecuzione «in forma semiscenica». In realtà l’azione manca quasi del tutto: i cantanti (in costume di foggia classica) sono schierati in proscenio, seduti su grandi troni-seggioloni dai quali si alzano solo per cantare rivolti alla platea; il coro occupa le gradinate retrostanti ed entra ed esce all’occorrenza; si registrano, infine, sporadici interventi danzati, estranei alla confezione originaria dell’opera. Le scene mancano completamente, e al loro posto scorrono le videoproiezioni di Alessandro Papa, incerte tra ingenuità da ricerca scolastica e animazioni in stile peplum (per fortuna, l’approdo della nave greca e l’apparizione fumettistica di Ulisse, all’inizio dell’azione, restano un caso isolato).
Ma in cosa consiste questo Achille in Sciro condensato? Di fatto, la partitura di Sarro non viene soltanto alleggerita attraverso l’eliminazione di numerosi pezzi chiusi, ma sottoposta a una metamorfosi drammaturgica che ne cambia radicalmente la natura. Filippo Zigante, che firma anche la regia (?), cassa quasi del tutto i recitativi e li sostituisce con incolori racconti-riassunti per voce recitante, affidati a Mariano Rigillo (decisamente poco valorizzato nelle vesti di ‘narratore’). Gli interpreti si ritrovano dunque a dover cantare soltanto i pezzi chiusi, che scorrono un po’ frettolosamente l’uno dopo l’altro. A questa infelice soluzione è evidentemente sotteso l’implicito convincimento che l’opera (seria) del Settecento sia indigeribile per un pubblico moderno e che il suo problema maggiore sia costituito dal ‘tedio del recitativo’. In realtà sopprimere i recitativi significa eliminare le interazioni tra i protagonisti e le tensioni dell’azione che determinano e giustificano le espansioni liriche delle arie. È un po’ come se, in un fregio dorico, si pensasse di far bene distruggendo i triglifi e allineando le metope, pur bellissime. Il ‘concerto di arie’, tanto deprecato dagli osservatori settecenteschi, non rende un buon servigio all’opera e, anziché determinare uno snellimento, produce beffardamente un effetto di noia e di pesantezza.
A quest’ultimo contribuisce purtroppo la qualità dell’esecuzione. La bacchetta di Alessandro De Marchi non sempre governa a dovere l’orchestra del San Carlo, mentre il coro fornisce una prova poco più che dopolavorista. Il terzetto delle prime parti non brilla di particolare nitore. Sonia Prina (Achille) manca di naturalezza e reca nella voce e nel volto i segni dello sforzo. Raffaella Milanesi (Deidamia) è fluida e precisa nei passi di agilità ma mostra qualche carenza nel volume. Francesco Marsiglia (Ulisse) controlla bene la voce nell’area centrale del registro ma si fa insicuro nelle escursioni verso l’acuto e, forse per prudenza più che per brevità, non esegue il da capo in due delle sue tre arie. Decisamente migliore l’apporto fornito dai comprimari. Un plauso speciale merita Lucia Cirillo (Teagene), dotata di timbro limpido e tecnica peritissima: davvero perfetta la sua ‘messa di voce’ all’inizio della splendida aria con oboe obbligato Sembra che al cor la speme. Bravi anche Enrico Iviglia (Licomede) e Francesca Lombardi Mazzulli (Arcade).

Visto il 05-11-2016
al San Carlo di Napoli (NA)