Prosa
MEIN KAMPF

Applaudire Hitler? Si può, ma quando Hitler è Stefano Massini

Stefano Massini
Stefano Massini © Masiar Pasquali

Palco vuoto. Una luce che filtra come un sussurro. E’ l’inizio del Mein Kampf, il monologo di Stefano Massini tratto dal Mein Kampf, il libro che il dittatore tedesco scrisse durante la sua prigionia nel 1924, rimasto per lungo tempo un testo proibito. Autobiografia e ideologia insieme, con le basi del nazionalsocialismo e delle teorie razziste e antisemite. 

Massini ci porta sul palco Hitler, non solo come dittatore ma anche come uomo comune, intriso di frustrazioni e rabbia, nel quale vediamo pulsare forte la sua mente contorta e pericolosa, il suo orgoglio e le sue paure. Un uomo respinto dal mondo che però ha un sogno: farsi ascoltare. Un flusso di coscienza dove Hitler parla direttamente al pubblico, che prova a convincere dell’assoluta giustezza delle sue idee. Ed eccolo, il pubblico: attonito e silenzioso, partecipa a questo dialogo, in un confronto con la storia e con i suoi inquietanti riverberi nel presente.  

Le frasi chiave 

“Non voglio diventare un impiegato”, ripete a sfinimento un giovane Hitler: vuole, fortissimamente vuole, un futuro che lo faccia passare alla storia. Una frase emblematica che ci mostra Hitler frustrato verso una possibile vita non all’altezza delle sue ambizioni di grandezza, la sua scelta deliberata e totale di non accettare una vita ordinaria: il primo passo verso la sua ossessione di potere. 

E poi, ancora: “La guerra è selezione dei migliori”, e “Non è il tempo del dolore, è il tempo del riscatto”, mantra che risuonano come un richiamo deformato da speranze oscure. Si innesca quindi la transizione mentale: non sono un emarginato, non sono un impiegato, ma io sono colui che salverà il popolo tedesco. Un messaggio di rinascita, ma anche di distruzione: la guerra è ineluttabile, e il mondo deve accettarla come rito di purificazione. 

Sospensione di giudizio

Massini non offre giustificazioni né condanne e, in qualche modo, mentre assistiamo al delirante monologo, ci induce a sospendere il giudizio spingendoci a capire le radici di quel sogno tramutato nell’incubo che ha segnato la storia dell’umanità.

Ma quel che emerge prepotente è la capacità del monologo, - così dritto, così semplice - di destabilizzare e scuotere il pubblico, portando luce su meccanismi storici oscuri che fatichiamo a comprendere pur col senno di poi. Non c’è pretesa di verità assoluta, solo un viaggio ineluttabile dentro parole che si insinuano come ombre nella mente di chi ascolta, e in questo senso la ripetizione ossessiva talvolta ha l’effetto di imporre troppo il suo messaggio, rischiando di offuscare la riflessione. 


Ma questa è anche la sua sfida: non accettare passivamente le parole, ma riconoscere quelle che risuonano dentro di noi, che ci attraversano senza che ce ne accorgiamo. Perché, come in ogni grande narrazione, ciò che è davvero pericoloso è ciò che colpisce nel profondo senza che lo comprendiamo appieno. 

Massini, magistero teatrale 

Hitler c'è. Lo vediamo eccome - e senza nemmeno doverlo imitare fisicamente come il recente Marinelli fa con Mussolini. Massini resta Massini e cattura egregiamente sia la sua megalomania sia la sua fragilità, concentrandosi solo sull'aspetto psicologico: via libera a follia, manipolazione e determinazione. Vola altissimo tra un’intonazione calma a momenti di vera e propria furia. Hitler c'è. E' morto, ma vive ancora, è tra noi. 

Tanto da sentire, poco da mostrare 

La scenografia minimalista amplifica la potenza del messaggio: una pagina bianca che si riempie di significato, con una cascata di libri che piovono dall’alto a simboleggiare un mondo che si sgretola sotto il peso delle proprie illusioni. Una perdita che si amplifica con un rumore di frantumazione che fa male. Ancora molto male.

Visto il 27-10-2024