Parma, teatro Regio, "Aida" di Giuseppe Verdi
NELL’INTIMITA’
Sbaglia chi crede che Aida sia un’opera “faraonica”, nel senso che è vero che è ambientata all’epoca dei faraoni, ma non è un’opera di estreme grandezze, anzi, tutt’altro, nonostante le apparenze e le abitudini Aida è un’opera di grande raccoglimento e di profondo intimismo. In più va considerato che le sole testimonianze che abbiamo della civiltà egizia sono quelle funerarie, per cui nell’allestire l’opera si deve cercare di non incappare nel banale “intimo uguale oltretombale”. Vince la sfida il Regio di Parma, con questa, tradizionale (ma non troppo) e claustrofobica (ma non troppo) Aida che ha chiuso il Festival Verdi, regia da un’idea di Alberto Fassini e direzione di Bruno Bartoletti.
L’allestimento comincia e finisce in un clima tenebroso, è tutto in interni (tranne la scena del trionfo in cui sullo sfondo si vede un tempio illuminato dal sole), tutto un notturno il cui colore dominante è un blu profondo, fin dall’inizio, emblematico presagio della fine claustrofobica. La ricostruzione dell’antico Egitto è precisa e puntuale, i templi di Karnak e Luxor sono lì, sul palcoscenico, ricoperti di geroglifici. A questa fedele ricostruzione della scena si contrappongono gli stupefacenti costumi (tutto di Mauro Carosi), assolutamente non tradizionali, assolutamente non filologici, al di fuori di ogni logica, belli proprio perchè eccessivi, ridondanti, pieni di fantasia nel contaminare le epoche e i luoghi, come se l’opera fosse una grande ed eterna fiaba disneyana (anche se alcune cose potevano essere risparmiate, come il copricapo piumato di Amonasro e gli ombrellini viola dei sacerdoti).
Gran parte del successo va al maestro Bartoletti, che, avendo a disposizione l’ottima orchestra del Regio, sulla partitura ha fatto un attento lavoro di scavo, riuscendo a far perdere all’opera quel senso di routine che inevitabilmente si affaccia ogni volta; egli non perde di vista uno strumento, anzi si produce in raffinatezze, esprimendo al meglio lo sguardo nuovo che Verdi ha avuto nella composizione. Inoltre ha tenuto tempi abbastanza larghi, conferendo una notevole solennità all’insieme ed al tempo stesso equilibrando in modo ottimo le sonorità trionfali, con le trombe nei palchi di proscenio. Così il coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, è stato notevole, leggero ma presente nel canto sottovoce, potente ma contenuto nel trionfo, come anche la compagnia Balletto di Roma, che ha proposto interessanti coreografie di Amedeo Amodio, rendendo più vivaci alcuni momenti musicali a volte eliminati dalla partitura.
Per quel che concerne il cast il personaggio meglio risolto è stata l’Aida di Daniela Dessì, ottima sia nelle sfumature dei momenti più intimi (riesce a smorzare i toni in modo commovente, come nell’aria “O patria mia mai più ti rivedrò” sull’assolo di oboe), come anche nei momenti di più marcata tensione drammatica. Il personaggio in cui Verdi si è concentrato di più, Amneris, era affidato a Luciana D’Intino, che ha un atteggiamento fiero, altero e sprezzante (è lei il motore della vicenda, davvero efficace quando alla fine Radames non risponde e lei impotente assiste alla scena e sbatte come una furia contro gli stipiti delle porte, come un uccello impazzito contro le sbarre della gabbia che non si apriranno mai più a liberarlo), sempre una voce bella, decisa e piena, il timbro scuro e un’emissione potente ma controllata: strappa un uragano di applausi al termine della lunga scena del quarto atto. Più debole invece il Radames di Fabio Armiliato, il quale, alle prese con un ruolo decisamente impervio per lui, risulta assai meglio nei momenti più intimi, quando riesce a cantare con molta dolcezza, esprimendo davvero il senso dell’irreparabile e della tacita accettazione. Appropriati tutti gli altri, su tutti Juan Pons che il ruolo di Amonasro frequenta da anni e il Sacerdote di Mario Luperi. Grandi applausi per tutti alla fine.
Visto a Parma, teatro Regio, il 24 giugno 2005
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Regio
di Parma
(PR)