Prosa
AL PRESENTE

Tecnica e etica nel lavoro di Manfredini

Al presente - Danio Manfredini
Al presente - Danio Manfredini

"Danio Manfredini è il monaco guerriero del teatro italiano. Per lui il lavoro dell'attore è un duro esercizio di autodisciplina e un percorso di conoscenza. Una tecnica e un'etica. Richiede una dedizione assoluta e impone difficoltà e sofferenze, perchè obbliga a scandagliare le parti più oscure di noi stessi”. Così Oliviero Ponte di Pino (prefazione a Lucia Manghi, “Piuma di piombo”, edizioni il principe costante). Danio Manfredini è estraneo a percorsi codificati, autore di un teatro personale e anarchico, interessato a situazioni di marginalità sociale, estraneo ai compromessi con il “mercato".

Qui Manfredini ha i pensieri, gli atteggiamenti, i gesti e i modi dell'alienazione mentale, con cui ha interagito a lungo per lavoro, ma anche della solitudine, dell'emarginazione e della marginalità. “Al presente” pone l'attenzione su diversi personaggi che si intrecciano, un magma oscuro e primordiale che risalta nella scena bianca abbacinante, con vaghi segni di muffa e di degrado, un bianco che si riflette sui vestiti e sulla pelle del protagonista (ponendo in risalto occhi rossi infossati) e che si riverbera nella platea, esplodendo nella mente degli spettatori. Come le parole. Nei vari personaggi Manfredini appare giovane e vecchissimo, tormentato e rassegnato, violentatore e vittima. Le parole di Manfredini si intrecciano a quelle di Camus, di Alberto Giacometti, di Büchner, uno sfogo rabbioso a più voci che si placa solo nei versi di largo respiro di Mariangela Gualtieri e nelle parole pacificate e piene di speranza del Vecchio Testamento. Sulla drammaticità del monologare si inseriscono registrazioni di segreterie telefoniche di pazienti psichiatrici. E nulla accade o si dice per caso. Non è casuale neppure il movimento di un dito del piede. Manfredini è perfetto, doloroso, straziante, lucidamente “presente”. Nella vita e nell'anima di ognuno.

“Al presente” ha debuttato nel 1998 dopo una lunga elaborazione e da allora è stato più volte “limato”; rispetto alle altre esperienze dell'autore ha il valore di un autoritratto con la deformazione del linguaggio della follia. Molti sono i frammenti autobiografici, a partire dalle prime battute in cui ripercorre la sua infanzia. Le parole sono registrate e giungono da una voce fuori campo, amplificata, mentre Manfredini presenta i primi personaggi, il Fuggiasco e il Nonno. Il Fuggiasco sembra un leone in gabbia; il Nonno percorre il palcoscenico in diagonale spingendo una strana sedia a rotelle in cui è seduto un manichino-sosia dell'attore (“non si è mai completamente infelici e si finisce per fare l'abitudine a tutto, anche all'ospizio”). La prima è una vita intricata, la seconda è una vita vissuta, il percorso di una vita compiuto trascinando il peso di se stessi, del proprio corpo, della propria anima.

Ombre scendono sulla scena e, sulle note de “Gli angeli” di Vasco Rossi, vengono proiettati acquerelli di Manfredini: panchine, un vespasiano, periferie, umanità frettolosa o dolente. La corporeità del nonno si trasforma nel Condannato a morte e la sedia a rotelle appare come una sedia elettrica, dove l'uomo si contorce in spasmi e tremori, urla silenziose che lacerando l'aria esplodendo con vibrante energia. E un dolore enorme, irrisolto. “Hai mai desiderato un'altra vita? Io l'ho desiderata. E vuoi sapere come la vedo? La vedo come una vita in cui io possa ricordarmi di questa. È come se avessi sempre atteso questo minuto in cui sarò giustiziato. Io sono pronto a rivivere tutto. Sento che sono stato felice e che lo sono ancora. Spero che ci siano molti spettatori per la mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”.

Il riferimento visivo è ancora a Bacon, come nei “Tre studi per una crocifissione”, al ritratto di Innocenzo X in cui la figura è squassata, deformata, carne viva e pulsante, cruda e crudele, immagine che diventa la visione emotiva da portare all'attenzione degli spettatori. Poi un extracomunitario si muove con passo strascicato al ritmo di jazz e parla di Dio e di comunismo. Qualcuno cerca un antidoto alla più totale delle solitudini, irrimediabilmente: “sono vecchio, sono solo, busso alle porte, toc toc, gentilmente.. vi posso fare compagnia?”

Manfredini si toglie la giacca, indossa una parrucca bianca e spettinata e sposta una sedia-tela; la musica dei Bronski Beat riempie lo spazio, seguita da altre canzoni pop: ecco un medico pazzo, un marchettaro, un masochista, una vittima, personaggi che si susseguono, urlando con rabbia sopra la musica ad alto volume. Un rito primitivo, catartico, apocalittico. “Io non voglio più stare qui, perchè qui è morire vivi. Sparatemi, perchè io non ne posso più”. Scrive Lucia Manghi: “nel vuoto colmo di dolore, l'anima vuole la morte, la invoca per cessare di essere, perchè essere è una condizione al di sopra delle sue forze”.

Pochi spettatori, in compenso entusiasti e, alla fine, sonoramente plaudenti a lungo.

Visto a Macerata, teatro Lauro Rossi, il 13 maggio 2008
Visto il
al Kismet di Bari (BA)