Parma, teatro Regio, Alceste
LA VITA, LA MORTE, LA VITA DI NUOVO
Alceste, per la prima volta al teatro Regio di Parma, viene rappresentata nella versione integrale di Vienna del 1767, in italiano su libretto di Ranieri de’ Calzabigi. L’opera ha costituito un punto di svolta nella storia della musica e la lettera dedicatoria di Gluck sul manoscritto è un vero e proprio manifesto della riforma dell’opera seria italiana: suo è l’intento di considerare l’opera lirica come dramma, in cui la musica intesse un rapporto di totale fusione con la parola; insomma non più una successione di arie, ma un complesso meccanismo drammaturgico, nel quale testo e musica confluiscono a creare un’unità nuova. Qui infatti il coro è trattato alla stregua di un personaggio ed ha un ruolo significativo sia musicalmente che in funzione della storia. La musica non ha più niente dell’opera barocca e rococò, nessun accento metastasiano, ma al tempo stesso è caratterizzata da coloriture già romantiche, limitando al massimo l’uso del recitativo, seppure non è ancora l’opera classica mozartiana.
La storia è quella di un sacrificio per amore: al re della Tessaglia, Admeto, il vaticino di un oracolo predice la morte, a meno che qualcuno non prenda il suo posto. L’amata sposa, Alceste, accetta di morire per lui, ma interviene Apollo, debitore verso Admeto, che restituisce Alceste alla vita, al suo sposo, al popolo di Tessaglia.
La regia di Liliana Cavani dà una forte impronta ad uno spettacolo affascinante e coinvolgente. La vicenda è stata spostata ai primi anni del Novecento (ultima epoca nella quale la monarchia in Europa era realmente e vastamente presente), volendo attualizzarla, pur senza arrivare all’oggi. La splendida scenografia di Dante Ferretti (un monumento, da sola uno spettacolo nello spettacolo) è fissa e richiama un interno/esterno ispirato sia ai teatri classici (penso al teatro Olimpico di Vicenza, ma anche al muro di scena del teatro di Aspendos, in Turchia) sia alle facciate dei palazzi del Rinascimento: è, al tempo stesso, cortile, interno di palazzo e di tempio, piazza; muta continuamente per situazioni di illuminazione (splendide luci di Sergio Rossi) e impostazione di quinte, ma sostanzialmente rimane la stessa nella struttura, una scena “classica ma non ellenistica, antica ma non immersa nella grecità classica”. Sono, invece, i magnifici e curatissimi costumi di Alberto Verso a situare l’azione nei primi anni del Novecento, in un mondo diviso in tre stagioni per i tre atti: un inverno grigio e nero, senza sfumature, per il primo atto, una primavera calda, beige e nocciola, striata di ruggine, per il secondo, un’estate bianca e avorio, con trasparenze, per il terzo.
L’overture ha il tono di una lamentazione funebre, una tinta dominante scura e severa in cui peraltro non mancano accenni di speranza affidati all’oboe, strumento largamente utilizzato nell’intera partitura. Il sipario si apre su una scena particolarmente efficace: il coro è di spalle, ombrelli neri aperti, il banditore è alla finestra su uno sfondo di luce arancione. È pieno inverno e piove. Tutti sono immobili, allibiti ed increduli alla notizia data dal banditore. Ci troviamo nel cortile di un palazzo, perché le finestre hanno le persiane. Alcune sbrecciature nella scena simboleggiano l’impossibilità del recupero dell’epoca classica: i mattoni sono visibili in dei frammenti sotto il rivestimento marmoreo, segno di corruzione, di non autenticità. L’ingresso di Alceste è accompagnato da una marcia di tono regale ma venata di profonde oscurità: tutti la salutano con un fare che ricorda le condoglianze; dopo un recitativo l’aria è cantata con tutto il popolo stretto intorno, un popolo in lutto, un popolo lamentoso, eppure composto e quasi rassegnato. Con una processione di incappucciati entra il gran sacerdote, mantello porpora, cilindro nero e collare dorato, forse mago e massone. Ora le persiane alle finestre sono aperte e rivelano statue di condottieri e déi, siamo dentro il tempio. La luce è quella delle fiaccole appese alle pareti e delle candele che i popolani hanno posato sul proscenio, l’odore forte è di incenso, che i sacerdoti hanno utilizzato per consacrare l’altare, da cui alcune donne srotolano nastri rossi. Sull’aria “l’altare ondeggia, il tripode vacilla, si scuote il suol, rimbomba il tempio” una tempesta di vento crea sul palco un turbinio di foglie gialle. Solo Alceste è imperturbabile, in attesa: subito una luce accecante, la voce dell’oracolo annuncia che il re morrà.
Nel secondo atto le statue nelle nicchie sono illuminate da luci livide, che le fanno apparire quasi come fossero coperte di muschio. Alcuni elementi in scena rivelano il senso del cantato, ci sono valigie, Alceste canta “partir…” ed il coro arriva con le valigie in mano e un atteggiamento di profonda e definitiva tristezza, il senso di una partenza per non tornare mai più. Appaiono i numi infernali, vestiti stracciati, maschere, movenze alla Michael Jackson nel video di “Thriller”. I coristi vengono spinti dai numi infernali su un carro ferroviario che rimanda alle lugubri deportazioni nei campi di concentramento, con il filo spinato a chiudere una piccola apertura del vagone. Poi siamo a primavera, un ricevimento a palazzo, camerieri passano tra gli invitati con vassoi carichi di bicchieri di champagne e torte al cioccolato. Ora le statue sono illuminate in modo tale da renderle splendenti nel bianco e non sono più in nicchie ma hanno dietro il vuoto e davanti ghirlande di fiori, come i palchi della sala del Regio. Il balletto (coreografie di Micha Van Hoeche) ha passi in prestito dal valzer e dal tango. Finalmente arriva Admeto, al lungo intimo colloquio tra i coniugi gli ospiti assistono discretamente da sotto il portico: la luce si fa crepuscolare quando Alceste comunica al marito la sua decisione di morire al posto suo.
Il terzo atto si svolge d’estate, lo sfondo è di archi aperti sul giardino e su campi di grano, sui gradini tre donne filano, a ricordare sia l’amore coniugale (la conocchia, un tempo il regalo per le spose), sia il destino ineluttabile (Cloto, Lachesi e Atropo: le Parche e il filo della vita). Tutto si compie: Alceste, vestita di bianco, lascia la scena portata a spalla da uomini come un crocifisso in processione, a braccia aperte. Poi appare Apollo citaredo, con chitarra in spalla e spighe di grano in mano: ne lascia cadere una sul corpo senza vita di Alceste e questa torna in vita, sull’esultanza del popolo di Tessaglia.
Straordinaria nel ruolo del titolo Anna Caterina Antonacci, cantante e attrice. Su di lei la Cavani ha fatto un pieno e riuscito lavoro di recitazione, articolato in una gestualità ricca che raggiunge il massimo nella magnifica aria “Ah! questo già mio stanco core”, dove il canto del soprano è preceduto da un andante in cui gli archi scortano la linea ed il timbro di un oboe sempre dolce ed affettuoso. La Antonacci ha una voce ampia e morbida, un colore profondo e caldo, un’emissione solida e fluida, una dizione scandita e facile, rendendo bene il senso del fraseggio gluckiano: “marmoreo e classicheggiante in superficie, ma agitato da un tumulto affettivo che gonfia il paludato involucro dando sempre l’impressione d’essere lì lì per lacerarlo”. Nel ruolo di Admeto il tenore Donald Kaasch ha rivelato purtroppo una mediocre pronuncia dell’italiano. Ottimi l’apparato scenotecnico e la regia della Cavani, anche se la ferrea unità dell’azione è disgregata dall’ambientazione in tre successive stagioni. L’orchestra del Regio diretta da Bruno Bartoletti ha suonato piena, forte e potente, anche se a tratti con meno impeto di quanto mi aspettassi; il coro del Regio è stato ben preparato da Martino Faggiani. All’elegante prima erano presenti al Regio, tra altri, il ministro Lunardi e l’Aga Khan.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Parma, teatro Regio, il 23 dicembre 2004, repliche fino al 02 gennaio 2005.
Visto il
al
Regio
di Parma
(PR)