« Altezza Reale, quando mi accinsi a scrivere la musica per Alceste, risolsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa vanità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l'opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli...». Con queste parole s'apre l'arcinota prefazione con dedica all'arciduca Pietro Leopoldo d'Asburgo, contenuta nell'edizione a stampa della partitura della “tragedia per musica in tre atti” Alceste, pubblicata nel 1769. Testo fondamentale per comprendere gli intenti che muovono la famosa 'riforma' dell'opera seria operata da Ranieri de' Calzabigi insieme a Gluck a partire dall'Orfeo ed Euridice del 1762. Riforma che viene portata poi a pieno compimento proprio con il successivo melodramma Alceste, messo in scena anch'esso nell'imperiale Burgtheater di Vienna la sera di Santo Stefano del 1767. Tutti gli intenti progressisti sostenuti con tale capolavoro – messi in pratica da Calzabigi e Gluck ma, si badi bene, già tutti esplicitati nel Saggio sopra l'opera in musica (1755) di Francesco Algarotti – si possono riassumere per sommi capi nella massima attenzione alla parola, che deve essere perfettamente intellegibile e non sacrificata al suono, e nella voluta semplicità melodica; e poi nel freno agli eccessi di virtuosismo, compresa pure l'eliminazione dei 'da capo', nel rilevante spazio concesso al coro – presenza basilare come nella tragedia greca – ed infine nella sostituzione dei recitativi secchi con quelli accompagnati, instaurando un flusso continuo tra questi e le arie. Reazione di valenza ormai già pre-neoclassica – i fondamentali studi d'arte di Winckelmann appaiono negli stessi anni – nei confronti dei troppi eccessi del gusto barocco. Sono principi nondimeno applicati non sempre pedissequamente, dato che proprio in Alceste incontriamo ancora due ampie sezioni con recitativo a secco, vale a dire gli intensi declamati che segnano l'ingresso in scena di Alceste prima, e di Admeto poi. Principi poi in parte traditi anche nelle successive riedizioni parigine di entrambi i titoli portate in scena all'Académie Royale, allorché il compositore, reduce dal trionfale successo di Iphigénie en Aulide, deve in qualche modo adattarsi al diverso gusto francese e stravolge per questo – benedetta pagnotta – i mirabili equilibri delle primitive versioni. Così se nell'Orphéé et Euridice del 1774 concede persino un'aria virtuosistica di sapore italiano al protagonista (un prestito, forse, dal Bertoni) nell'Alceste parigino, divenuta due anni dopo una 'tragédie-opéra', Gluck inserisce non solo degli ampie sezione danzate, ma pure una ragguardevole quantità di musica nuova; e sacrificando però di non poco, al tempo stesso, il precedente egemone ruolo del coro. Interviene, in poche parole, in modo talmente profondo sui versi francesi dell'Alceste sino a farne una partitura distinta dalla prima, molto più variata e ricca di colore e per questo graditissima al pubblico francese; ma, a conti fatti, lontana dal composto e maestoso equilibrio della redazione viennese intrisa da un'aulica solennità, paragonabile a quella della grande tragedia classica.
Mai in passato l'Alceste di Gluck era stato rappresentato alla Fenice, per la quale è una novità assoluta; per questo primo allestimento, coprodotto insieme alla Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, è stato chiamato in campo Pier Luigi Pizzi, che perviene in questo modo al quarto suo approccio al titolo, dopo le famose produzioni del 1966 a Firenze (regia di Giorgio De Lullo, variante francese ma con testo in italiano come s'usava un tempo), del 1984 a Ginevra (variante francese), del 1987 a Milano (versione viennese con la direzione di Muti). Anche stavolta la scelta è caduta sulla partitura originale, e nuovamente Pizzi l'ha firmata per intero - regia, scene e costumi di questo superbo spettacolo sono tutti suoi - realizzando un lavoro assolutamente lodevole. Le cifre del suo procedere son sempre un po' le stesse, all'insegna cioè di una sobria ricercatezza: che qui viene guidata da un'impronta austeramente neoclassica, con qualche suggestione dell'arte canoviana. Lunghe vesti candide per tutti, grigie invece per le divinità dell'Ade, e nere di lutto – ma solo alla fine - per Alceste ed Ismene. Un alto frontone dai tre fornici, richiamante il proscenio del teatro classico, viene offerto come monumentale sfondo fisso - salvo lo scorrere al suo interno di grandi ante mobili – che con poche aggiunte di volta in volta muta significato: dapprima è l'esterno della reggia, nella scena del tempio ospita una grande statua di Apollo, in quella della selva “sacra agli dei infernali” tetri alberi carichi di teschi, e nel terzo atto – l'interno del 'real palazzo' - un grande talamo al centro, sotto un grande panneggio dorato, che diviene infine il feretro della protagonista. Le luci di Vincenzo Raponi, quasi tutte frontali, calano sulla vicenda gelide atmosfere di morte; dal canto suo la regia di Pizzi – che d'intesa con la direzione musicale ha suddiviso il lavoro in due parti, ponendo l'unico intervallo dopo la visita di Alceste agli Inferi - si muove con estrema compostezza, in un procedere aulico e severo, rileggendo insieme a noi l'immortale mito che sta alla base di questo intensissimo dramma sull'amore coniugale.
Parliamo ora dell'esecuzione musicale, che vede ben tre debutti nelle prime parti poiché Carmela Remigio, Marlin Miller e Zuzana Markovȧ si cimentano per la prima volta con i ruoli di Alceste, Admeto, Ismene. Fatto che non deve di per sé troppo stupire, peraltro, considerate le non frequenti riprese di questo capolavoro settecentesco. Molto impegnativo ed arduo ovviamente il compito della Remigio, protagonista assoluta, e quindi coinvolta in tutto l'arco della partitura; dal punto di vista emotivo, sa essere tenera madre, e sposa amorosa, dal punto di vista tecnico assolve il suo compito egregiamente grazie ad una emissione solida, e ad un'interpretazione articolata ed espressiva, satura di nuances e di colori, sostenuta da una dizione esemplare: qualità questa assolutamente indispensabile in questo particolare frangente. La soprano pescarese appare perfettamente a suo agio in momenti come «Ombre, larve» oppure «Figli, diletti figli!», ma lo è ancor di più proprio nei recitativi, momenti cardine della drammaturgia gluckiana, che grazie a lei emergono in tutto il loro nitido fulgore, saturi di tensioni emotive e contrasto di sentimenti. E' per questo che la possente scena del confronto con le anime degli inferi assurge ad una statuaria dimensione, e passi cruciali quali «Oh tenerezza! Oh amore» ed «Amati pegni del pudico amor mio, teneri figli», doloroso congedo dalla vita nella mesta scena che chiude il secondo atto, sanno tenere lo spettatore nella morsa d'una dolente commozione.
Tutto il contrario, purtroppo, di quel che accade con il tenore americano, che sciupa la grande scena di Admeto, nel secondo atto, cincischiando con le parole, e poi affronta con un incedere a tratti belluino e con un fraseggio non sempre saldo e adamantino, la complessa prova di «No, crudel: non posso vivere»; e giunge infine a concludere l'impresa affidatagli con un certo affaticamento vocale. Ben disimpegnata l'Ismene della Markovȧ – basti vedere come risolve con bella varietà di affetti l'aria 'parlante' «Parto...ma senti...Oh Dio!» - ed inappuntabile la nobile condotta vocale di Giorgio Misseri nei panni di Evandro; nelle parti di contorno stanno Armando Gabba (il banditore/l'oracolo) e Vincenzo Nizzardo (il Gran Sacerdote/Apollo). Un pochino troppo lamentose e querule, a parere di chi scrive, le vocine bianche cui sono affidati i piccoli Eumelo ed Aspasia.
Sul podio presiede Guillaume Tourniaire, che si fa latore d'una visione alquanto levigata e puntigliosa della partitura gluckiana. Ridotta la varietà dinamica, e poche le sfumature in una concertazione che avanza con metronomico incedere, e con limitati chiaroscuri; una concertazione, in parole povere, dalle scarse proiezioni drammatiche, e per questo priva di vera concretezza teatrale. Notevoli i calibratissimi momenti corali – e qui emerge appieno la sua formazione di maestro di coro – ma altrove, nella impersonale e severa visione del direttore provenzale, si avverte una mancanza di calore e scarso coinvolgimento emotivo. Nondimeno, il Coro della Fenice preparato da Claudio M. Moretti si è comportato in maniera esemplare, ed assai validamente hanno operato pure i ranghi strumentali del teatro veneziano.
Lirica
ALCESTE
Una grande interprete per Alceste
Visto il
20-03-2015
al
La Fenice
di Venezia
(VE)