Nel mondo teatrale persiste il mito che il ruolo di Amleto sia il sogno di ogni attore. Questa è la prima cosa che viene in mente assistendo all’ultimo lavoro di Lorenzo Loris. Altrimenti è davvero difficile comprendere come mai il 56enne regista, storico direttore artistico del teatro milanese Out Off, circondandosi di attori e attrici quasi tutti molto più giovani di lui, si sia messo nei panni dell’infelice trentenne principe di Elsinore.
II teatro contemporaneo, le cui radici affondano in quello classico, è praticamente inimmaginabile senza le cosiddette “versioni registiche”. Unire più traduzioni dello stesso noto testo letterario o, addirittura, riscriverlo “ex novo” non scandalizza più nessuno. Anzi, la questione di cosa volesse trasmettere al mondo lo stesso Shakespere ormai viene considerata o definitivamente chiusa o, semplicemente, inopportuna. Quel che sembra contare davvero è il nesso tra le visioni del celebre, ma lontano classico e le realtà , i ritmi e le percezioni della vita moderna. Infatti, seguire lo scontro tra i due autori spesso è molto più emozionante e, a volte, divertente che il duello tra Amleto e Laerte. Per un critico, invece, l’assenza di una marcata “versione”, già di per sé, rappresenta un motivo di perplessità e il segnale della mancanza di un’originale visione registica.
Alle tendenze shakespeariane in voga nel suo ultimo spettacolo, Lorenzo Loris ha indubbiamente preferito un approccio tradizionale con la rigorosa traduzione di Cesare Garboli, la monumentale scenografia di Daniela Gardinazzi che riproduce le mura secolari del palazzo di Elsinore, le spade, i mantelli, i teschi, i tamburi… Non ultimo, il pathos degli attori qua e là insaporito da intensi momenti psicologici. Nessuna deviazione dalla trama e dalla sequenza degli eventi. La sua non è sicuramente una ricerca di nuovi significati e metafore, ma piuttosto un tributo di riconoscenza al celebre autore. Uno spettacolo così avrebbe potuto essere messo in scena trenta, cinquanta o cent’anni fa. No, forse cinquant’anni fa lo spettro di Amleto-padre non sarebbe sceso lungo la scala della platea e Claudio con la sua corte non avrebbero scomodato il pubblico sedendosene in mezzo per assistere alla “Trappola per topi”. Forse cent’anni fa il regista non avrebbe neanche vestito Rosencrantz e Guildenstern da Pincopanco e Pancopinco e tutti gli altri abitanti del castello di Elsinore da personaggi della Traviata. Ma i loro gesti, il loro modo di salutarsi, soffrire e impazzire pittorescamente sarebbero stati gli stessi.
E l’età avanzata di Amleto? Solo al momento della sua prima apparizione sul palco si pensa ancora a una nuova e originale lettura dell’opera classica: al conflitto tra i padri e i figli, oppure che i capelli bianchi non sempre rappresentano un segno di saggezza o viceversa. Nulla di tutto ciò. La mancanza di un contesto originale che giustificherebbe la canizie precoce del principe danese fa sì che già poco dopo l’inizio si crei la forte sensazione di assistere a una specie di prova generale durante la quale l’attempato regista cerca di sostituire un attore infortunato. E’ anche il motivo per cui le repliche che il suo principe rivolge alla giovanissima madre sembrano forzate e ridicole, i baci che lo studente di Wittemberga – sicuramente ben fuori corso - dà a Ofelia, addirittura, imbarazzanti. Il suo sventurato erede soffre e dubita, ma lo fa in un modo innaturale, con un’intonazione sonnolenta, monotona dall’inizio fino alla fine e s’impappina pure.
Rimane poco chiaro cosa volesse raccontare il regista al mondo e alla città con questa sua messinscena della celebre opera, a parte spingere in superficie la storia privata dello sfortunato rampollo reale. Le idee fondamentalmente nuove, purtroppo, non è stato possibile intravvederle.