Spettri, celebre dramma scritto da Henrik Ibsen a fine Ottocento, è in scena in una produzione firmata Teatro Stabile del Veneto diretta dal regista lituano Rimas Tuminas.
Protagonisti sul palco Andrea Jonasson, nei panni di Helene Alving; Gianluca Merolli interprete di Osvald, il figlio problematico di Helene da tempo vedova; Fabio Sartor, nell’abito talare del pastore Manders; infine Eleonora Panizzo e Giancarlo Previati, a dare vita ai personaggi messi in secondo piano in questa rilettura drammaturgica della giovane Regine e del vecchio Jacob Engstrand. L’adattamento in un atto unico curato da Fausto Paravidino propone una versione distillata del dramma sociale e famigliare scritto da Ibsen.
Le verità nascoste illuminate da un temporale
Nella scenografia oltre al fumo perenne, che è un po’ nebbia da serata da spettri e un po’ evoca l’incendio dell’orfanotrofio presente nel dramma, elemento narrativo reso marginale, domina ovunque il nero in quello che si rivela presto un regno di ombre.
L’allestimento firmato da Adomas Jacovskis è costituito dalla ricostruzione di un salotto arredato con una mobilia alto borghese che sa d’antico, dominata dall’alto da un lampadario algido e imponente, e colloca sulla parete di fondo un grande specchio ancorato a tiranti. Quest’ultimo diventerà a tratti danzante, protagonista con Regine e Osvald di una sorta di danza macabra che sancirà la fine dell’amore tra i due giovani, nel momento in cui sarà svelato che hanno un padre in comune.
Le verità nascoste che in una sorta di resa dei conti incombono come un temporale (con tanto di tuoni che risuonano in sala) sulla vita dei personaggi presenti e assenti sul palcoscenico — più volte evocato è anche il fantasma del capitano Alving — hanno a che fare con storie di tradimento, malattia, perbenismo e malanimo.
L’asciuttezza dei dialoghi, in particolare la riduzione di quella ricca parte di racconto che Ibsen destina a Helene, insieme alla scelta di inserire diversi momenti connotati da pause e silenzi, fa virare con toni di leggerezza alcuni temi che attraversano il dramma, in particolare quello dell’incesto. Nella scena finale, Helene indossato un velo diventa una Madonna pietosa a cui il figlio infelice, piagato dalla malattia mentale ricevuta in eredità dal padre, chiede un estremo atto di bontà, una fiala di morfina in mano.
Indovinate le musiche, che accompagnano l’intero spettacolo con un sottofondo chiaroscurale che mette in luce il momento di crollo che sta vivendo questa famiglia dell’estremo Nord europeo, dove tira aria da tragedia greca. Seguendo i dialoghi, si scoprono via via, un po’ detti un po’ intuiti, altarini e verità scomode e i muri da castello delle fiabe si sgretolano, lasciando solo rovine.
Nei passi in cui si parla della famiglia, per voce di Osvald fa la sua comparsa un inserto che fa un’incursione in un tema d’attualità, dove si afferma che famiglia non è quel groviglio di rapporti malati governato dall’apparenza che sta apparendo nello specchio ma è dove c’è amore tra le persone.
Una questione tra madre e figlio
Andrea Jonasson, classe 1942, una signora del teatro, veste con eleganza e sobrietà il ruolo di Helene. Gianluca Merolli interpreta con sentimento Osvald, caratteristico personaggio ibseniano intrappolato nella rete delle proprie contraddizioni. Si dibatte in scena con frenesia e poi con disillusione, poiché sente agitarsi nel sangue lo spettro dei comportamenti dissoluti del padre. A un certo punto canta con bella voce e la giusta tristezza il celebre brano di Leoncavallo detto Ridi, Pagliaccio, a sottolineare che nella situazione in cui si trova che c’è ben poco da ridere.
Tra le altre riduzioni, la scelta drammaturgica di far indossare solo i panni dell’ingenuità a Regine, di rendere marginale il ruolo del falegname Engstrand e meno mefistotelico il pastore Manders parla di una versione stilizzata, virante per scelta nei toni della tragedia classica, dell’opera carica di complessità e ambiguità scritta dal grande drammaturgo norvegese.