Piano piano, scandita nel tempo, con Apollo et Hyacinthus il Teatro La Fenice ha condotto in porto l'integrale dei lavori operistici di Mozart. Che poi sia il primo vero cimento teatrale del Salisburghese (a parte uno dei tre atti dello sinsgpiel Die Schuldigkeit des ersten Gebots) a porre la parola fine all'esteso progetto, assume un certo significato.
Rappresentato il 12 marzo 1767 all'Università benedettina di Salisburgo, ad intervallare i cinque atti del dramma Clementia Croesi – l'uno e l'altro su testo latino del professore Rufinus Eidl – i tre momenti di Apollo et Hyacinthus eseguiti di seguito organizzano una piccola, ma compiuta opera. Una partitura che rivela il genio e l'innata predisposizione musicale dell'undicenne compositore, a dispetto di qualche inevitabile immaturità, qua e là emendata – come rivela l'autografo conservato a Berlino – dal paziente papà Leopold.
GLI SPETTACOLI
IN SCENA IN ITALIA
Alla base, le Le Metamorfosi di Ovidio
L'operina rielabora uno dei miti de Le Metamorfosi di Ovidio - Apollo provoca involontariamente la morte dell'amato Giacinto, e ne perpetua la memoria trasformandolo in fiore – e prevede cinque personaggi principali, affidati all'epoca alle voci bianche di quattro studenti e ad un ventiduenne docente dell'ateneo salisburghese. Cinque arie - una per ognuno - più un coro, un paio di duetti ed un terzetto finale, tutto collegato da recitativi.
Un'ora e mezzo di musica in tutto. Tra l'altro, pure le precedenti rappresentazioni di Apollo et Hyacinthus a Venezia - risalenti al lontano 1984 - ricordiamo vennero offerte da giovanissimi solisti del Tölzer Knabenchor di Monaco, suscitando l'ammirazione di tutta la critica - compreso chi scrive - per il prodigioso talento dei suoi piccoli/grandi interpreti. Distribuiti in due cast differenti, per di più.
Voci bianche un tempo, voci adulte oggi
Oggi vediamo generalmente l'impiego di voci adulte, come nel caso di queste recite del Teatro Malibran. Cast senz'altro di alto livello. Apollo beneficia dell'eccezionale carattere e dell'intensa, signorile vocalità di Raffaele Pe; un compatto e nobile Oebalus è quello donato dal tenore Krystian Adam; il soprano Barbara Massaro risolve con perizia la profusione di abbellimenti – trilli, picchettati, acciaccature, roulades – dell'aria «Laetari, jocari» appannaggio di Melia; il controtenore Kangmin Justin Kin descrive con maestria un appassionato Hyacinthus; il controtenore Danilo Pastore offre un inappuntabile Zephyrus. L'angelico duetto «Natus cadit/Frater cadit» lo ritroveremo trasfigurato nell'Andante della Sinfonia in fa KV 43.
Concerta Andrea Marchiol, attento e rigoroso specialista del repertorio barocco – non poco contano lunghi anni di collaborazione con René Jacobs alle spalle – ricreando per noi un'atmosfera di dolente, drammatica ed austera dolcezza, in cui trovano posto anche la trasparenza e le singole individualità di un vigoroso organico di strumentisti dell'Orchestra della Fenice.
Una bella collaborazione con il territorio
Scene, costumi, light design sono frutto dell'appassionato impegno di allievi dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, coordinati sezione per sezione – è prevista anche la realizzazione manuale dei materiale scenico – dai loro bravi docenti. Li ritroviamo tutti davanti a noi, impegnati come comparse e come servi di scena, pronti a modificare gli spazi.
Dal libretto di sala emergono i nomi di Enrica Giusti per costumi, che ai nostri occhi viaggiano attraverso più epoche. E di Gemma Dorothy Aquilante, Daniel Mall e Brenda Tania Rodriguez Chirino per la concezione scenografica: un aperto richiamo alla street art ed al paesaggio urbano odierno, inondato di graffiti; più qualche innesto classico, qualche statua e la trabeazione classica che l'incornicia dall'alto. Molto teatrale poi l'idea dei tredici cubi luminosi dell'iniziale parola metamorphosis, variamente ricombinati a formare altre parole-oggetto per sottolineare le situazioni emotive: timor, amor, eros, mors, pietas, pathos, memoria.
La drammaturgia della regista Cecilia Ligorio non stravolge il testo latino ma lo penetra accortamente – sua anche la traduzione - con grande sensibilità, impostando lo spettacolo su più livelli ed attualizzando in qualche modo l'aulica vicenda. Affidandosi anche alla creatività dei giovani collaboratori, trionfa così nell'ardua impresa di superarne la debole teatralità, accrescendone la portata drammatica con tocchi abili, intelligenti e leggeri.